Enrico Scrovegni
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Enrico Scrovegni, committente della Cappella,
Cappella degli Scrovegni; Padova |
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Quando subentra al padre nel ruolo di timoniere
della famiglia, Enrico Scrovegni eredita un'immensa fortuna ma, con essa,
anche una pessima reputazione: è conscio del possente piedistallo
di ricchezze che lo stacca dalla massa degli artigiani e dei bottegai,
ma sente gravare su di sé pregiudizi di parte della società
per l'accusa non tanto occulta di strozzinaggio. Enrico aveva sposato
in prime nozze una sorella di Uberto il Grande da Carrara.
Vi sono pure indizi che lo fanno credere vassallo degli Estensi, a riprova
del fatto che il suo matrimonio in seconde nozze con una nobildonna di
quel casato, il più aristocratico che fosse mai fiorito nell'Italia
nordorientale, fu frutto anche dei capitali messi a servizio anche di
quei principi.
Soprattutto attraverso una serie di pergamene dell'anno 1290, poi, si
può dimostrare la costituzione di un cospicuo fondo finanziano
alimentato dalle sostanze dei numerosi diversi familiari, donne comprese,
sullo stampo delle coeve compagnie o "banchi" toscani, che funzionava
ancora dopo l'esilio veneziano di Enrico, mentre una parte della parentela
risiedeva a Padova. Ma già prima Enrico doveva investire nel redditizio
emporio veneziano una parte del danaro maneggiato con proficua solidarietà
assieme ai parenti, tant'è che nel 1312 una sua nave carica di
lana, cotone e formaggio risulta sequestrata dai doganieri di Mestre.
Stando a un registrino contabile dei suoi ultimi anni di vita, risulta
inequivocabilmente che Enrico investiva sulla piazza veneziana ad negotiandum
o in merchanciam o ad cameram de frumento somme proprie e, di affini che
gli venivano recapitate da Padova proprio dai preti (Rainerio e Angelino),
della Cappella dell'Arena.
Tra i suoi abituali creditori vi erano personaggi di famiglie eccellenti,
lo stesso comune veneziano, nonché dei fiorentini. Una serie di
elementi, quindi, comprovano che la penetrazione degli Scrovegni anche
a Venezia fece sì che la domanda inoltrata al doge di avere delle
reliquie di san Marco provenisse evidentemente da persona ben conscia
di poter vantare dei crediti anche presso le autorità pubbliche
della Serenissima.
Non mancano d'altronde elementi per arguire che l'interessato fiuto di
affarista pronto a far fruttare i propri immensi capitali nelle circostanze
e nei modi più opportuni abbia spinto pure lui, come il padre,
ben oltre il Veneto e persino nella curia romana. Non si può far
fede cieca alla notizia, trasmessa da una cronaca piuttosto infida, che
egli avrebbe ospitato il futuro papa Benedetto XI quand'era ancora cardinale,
onorandolo con doviziosi regali. Di certo, all'epoca della costruzione
della Cappella dell'Arena, un rescritto dello stesso pontefice qualifica
Enrico come familiaris noster, lasciando intendere un'intimità
col prelato di origine trevigiana.
Oltre a ciò esiste la più attendibile versione della cronaca
del Da Nono, che raccoglie l'indiscrezione - adombrata anche dai documenti
- per cui Enrico avrebbe addirittura ingannato il medesimo papa, facendogli
credere d'aver estratto dalla propria tasca iI danaro necessario a costruire
e adornare l'edificio sacro, mentre avrebbe in realtà usato somme
di un nobile fuoruscito da Mantova nel 1299, Bardellone Bonacolsi (de
bonis nobilis militis Bardolonis de Bonacolsis, condam domini civitatis
Mantue, qui per Botesellam fratrem suum fuit expulsus), probabilmente
avute in deposito.
Enrico fa testamento nel 1336 a Venezia, dove viveva dopo esser stato
esiliato.
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