Materia, forma e "unità potenziale" nel restauro
Nell’immediato dopoguerra ma ancora fino a non molti anni fa, tutti noi castelvetranesi ma anche gli abitanti dei paesi della Valle del Belice, per i quali Marinella di Selinunte costituiva il naturale sbocco balneare, nonché la maggior parte dei Siciliani cui capitava di parlare dell’area archeologica che ci ospita il termine usato per designarla era “Pezzi di Selinunte” o, semplicemente, “pezzi”.
Ai “pezzi “ si andava nelle gite scolastiche, per le scampagnate del 1° Maggio, per le foto dopo il matrimonio, per la passeggiata domenicale ...
Ci si veniva anche per “oziare”, e a me era successo più volte, proprio in questo “baglio”, prima che venisse acquisito dallo Stato, con alcuni compagni di classe, tra cui un parente del proprietario, muniti di classici greci ( e, per prudenza, del relativo Bignami) ogni volta che una loro interrogazione in materia si risolveva in un disastro, dal quale, a differenza che per le versioni, ovviamente non ero in grado di difenderli. Non riuscivano a capire ( anche se, forse non disinteressatamente, non lo davano a vedere) come potessi sprecare il mio tempo con una lingua morta
“Morta” del resto doveva apparire ai loro occhi quella distesa enorme di rocchi, capitelli, basi, trabeazioni e quant’altro, come d’altra parte ( lo dico solo per i colleghi stranieri) si desume dal termine prima ricordato: “pezzi” come frammenti, come parti di un organismo irrimediabilmente perduto, e quindi in sé privi di vita “Morti” ma non estranei – così come ( ma ovviamente non intendo proporre un rapporto di analogia tra i due fenomeni) privi di esistenza fisica ma tutt’altro che estranei, anzi con legami di sangue, sono i “morti” che, il 2 novembre, in occasione della annuale commemorazione dei defunti, portano (portavano ?) i regali ai bambini. Un senso di ammirazione, quello certamente si – per le dimensioni e la quantità dei “pezzi”, per la capacità di risolvere problemi , come l’estrazione dei blocchi e la “semilavorazione” nelle Cave di Cusa, il trasporto a Selinunte, il montaggio, tutte cose che, per chi aveva esperienza solo di camions e ruspe in movimento, aveva dell’incredibile.
Forse anche un misto di stregoneria e di conseguente timore, quale farebbe sospettare la denominazione locale tuttora in uso di “Fusu di la Vecchia” per la colonna stante più alta del Tempio G, in cui il termine “vecchia” ha evidentemente un significato ben diverso da quello corrente.
Un atteggiamento non troppo lontano – si direbbe – da quello prerinascimentale, nonostante siano passati tanti secoli e si sia nel frattempo costituita un’attitudine assai più complessa ed elaborata, almeno a livello di élites culturali sempre più allargate, è vero, e però incomparabilmente distanti dalle dimensioni e dalle aspettative, oltre che dalla strumentazione cognitiva, della “cultura di massa”.
Ora – sempre procedendo a volo d’uccello – non c’è dubbio che, fatta salva la pura e semplice conservazione dell’esistente, l’atteggiamento che più ha caratterizzato, nell’ambito della civiltà occidentale, il rapporto con i segni del passato è stato il restauro: che nel corso dei secoli è stato dettato dalle esigenze più diverse, per lo più estranee a quella che soltanto in tempi recenti ( almeno formalmente e con non poche eccezioni) si è affermata come finalità, se non unica certamente prioritaria, voglio
dire quella della conoscenza e quindi di una più adeguata conoscenza del nostro passato sotto i molteplici punti di vista che ormai la ricerca storica esige. Naturalmente è doveroso quanto meno non omettere di citare il ruolo che, accanto e in maniera complementare rispetto a quello della conoscenza, ha svolto, negli ultimi 2 secoli, l’intenzione – più o meno radicata e dichiarata – di restituire attraverso il restauro ai fruitori la possibilità di rivivere un’esperienza “estetica” nella maniera più vicina possibile a quella di cui dovette fare esperienza chi quella determinata opera aveva avuto modo di vedere nella sua integrità – non a caso, del resto, risale proprio a quel momento di lenta ma inarrestabile presa di coscienza del tramonto di un’epoca storica il riconoscimento dell’autonomia disciplinare di quell’aspetto dello “spirito” chiamato, da allora in poi, “estetico”.
Ma trovo più interessante, ai fini del nostro discorso, ricordare come, fin dalle origini, e del resto in piena sintonia con la caratteristica più innovativa della cultura del tempo, la riflessione sul restauro si fondasse su una serie di coppie antitetiche, con risoluzione nel terzo momento, quello della sintesi, più spesso prospettata che realizzata, a cominciare da quella, presente – passato, da cui tutto, nel campo del restauro, trae origine.
Mi riferisco in particolare alla coppia autenticità – identità, che ha caratterizzato il dibattito sul restauro della nostra “eredità” o “patrimonio” culturale che dir si voglia fino ai nostri giorni, certo con modalità e con tempi non perfettamente coincidenti, non soltanto e non principalmente in relazione ai diversi “statuti” artistici dell’opera o delle opere in questione, ma anche e soprattutto in dipendenza dialettica da fenomeni di ben più vasta portata che hanno strutturato il modo di vita dell’intera Europa ( e propaggini variamente dislocate nel pianeta) fino ad oggi, troppo noti per dovere essere citati in questa occasione, dato che non c’è ormai manuale scolastico di un certo rispetto che non metta nel giusto rilievo, che dire? la nascita del moderno mercato dell’arte ( autentico-falso), il consolidarsi delle pulsioni nazionalistico- identitarie ( identico-altro, quindi superiore - inferiore) e quant’altro.
In Italia, com’è ben noto, il processo giunge ad una sua prima maturazione nel periodo post-unitario e trova, nel bene e nel male, i rappresentanti più significativi in Camillo Boito e Giovan Battista Cavalcaselle, cioè a dire in un architetto e nel primo storico dell’arte italiano in senso moderno.
Sarebbe imperdonabile se, in un consesso di illustri archeologi, mi mettessi anche soltanto ad accennare ai motivi della “resistibile ascesa” della archeologia in epoca di risorgente imperialismo ( “straccione” quanto si voglia) e poi, a maggior ragione, nel “rinnovato” Impero del Ventennio, alla luce dell’antica Roma, dei fasci littori e via seguitando.
Non c’è dubbio però che proprio in questo periodo si consuma il più forte tentativo di scorporare il valore “spirituale” ( per dirla con i termini di allora) dell’opera d’arte dal suo valore di mercato, spingendo fino allo stremo il concetto di “autenticità” contro l’imperante prassi del “restauro antiquariale”, così contiguo al “falso” ( con il quale del resto, sia detto tra parentesi, in Italia persisteva una lunga e fortunata tradizione), ma anche – per estensione – come indiretta contestazione del “falso
ideologico” insito in tante imprese archeologiche volute dal Regime e della “retorica passatista” presente in molte delle sue realizzazioni edilizie.
Non a caso l’operazione aveva il suo punto di riferimento e di incoraggiamento nel Ministro Bottai, cioè del più deciso esponente della “fronda” al Regime in campo culturale, e la sua fonte di ispirazione culturale nell’ultima, grande ma anche tragica, fiammata del pensiero filosofico europeo.
Passato il periodo dell’emergenza post-bellica, quando di fronte alle rovine non solo materiali della guerra non poteva non prevalere l’opzione identitaria in quanto sorretta da motivazioni antropologiche, di necessità di ritrovare la propria identità storica nella restituzione à l’identique della “forma” di un edificio simbolo, di un complesso monumentale, di un centro urbano, la dialettica autenticità-identità riprende con rinnovato vigore, polarizzandosi verso quest’ultima una parte importante del restauro architettonico e, al contrario, verso l’autenticità il restauro delle opere d’arte e, per estensione, dei manufatti archeologici, seguendo l’esempio di Brandi e dell’Istituto centrale del restauro.
Presso il quale, del resto, l’impegno verso l’autenticità non era venuto meno neppure nei momenti più difficili: e basterebbe citare in merito, alla fine degli Anni ’40, gli interventi di ricomposizione e restauro dei frammenti degli affreschi di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta della locale Chiesa della Verità e di quelli di Andrea Mantegna nella Cappella Ove tari nella Chiesa degli Eremitani a Padova.