Tra "restituzione virtuale" e restauro reale - un approccio guidato
Uno dei clichet più diffusi a proposito di restauro è quello secondo il quale l’opera, dopo l’intervento, torna “bella come prima”, se non “più bella di prima”.
Questo - come ben sanno non solo gli “addetti ai lavori” ma anche quella parte del pubblico realmente interessato alla sorte del nostro Patrimonio artistico e storico - non sempre è vero, a meno che non si voglia identificare il restauro con un intervento di “abbellimento” ( o toilette), come invece assai verosimilmente penserà quella parte restante di pubblico che non abbia avuto occasione di contatti diretti con il restauro nel senso più completo ( e complesso) del termine.
Primitivo splendore
Ma tra i tanti clichets legati al restauro, ce n’è un altro assolutamente inaccettabile, ed è quello che, per quanto variamente formulato (come quando era uscito dalle mani dell’artista, ovvero tornato al primitivo splendore, etc.), fa passare per reale dato di fatto ciò che non può esserlo, sia che lo si giudichi sotto l’aspetto fisico che sotto quello culturale.
Non c’è bisogno, infatti, di essere particolarmente informati in campo scientifico per sapere che quello in cui viviamo è un sistema entropico, cioè un sistema i cui componenti, siano essi animati o inanimati, tendono inesorabilmente a tornare, anzi a “regredire”, allo stato originario.
Non fanno eccezione (né potrebbero) i materiali costitutivi delle opere d’arte e, più in generale, dei cosiddetti Beni Culturali: anzi, da un certo punto di vista, dovrebbero essere considerati più a rischio dato che non posseggono capacità rigenerative come invece, fino ad un certo punto, hanno gli esseri viventi.
La prima considerazione che viene spontanea è che, stando così le cose, nessun intervento su di essi può essere realmente migliorativo, anzi non può che essere lesivo della loro residua consistenza materica (oggettivamente anche se non volontariamente e dando comunque per scontato che esso sia stato messo in opera nel migliore dei modi): ragion per cui, come raccomandava già Cesare Brandi più di mezzo secolo fa, la cosa migliore è prevenire il deterioramento, o, per essere più precisi, operare affinchè non abbiano ad insorgere cause di accellerazione del naturale processo di degrado cui essi sono sottoposti. L’altra, per riprendere il discorso iniziale, che è dunque evidente che tornare allo stato originario è reso impossibile dalle leggi della fisica – e, del resto, non a caso fa parte del linguaggio più diffuso dire, in ogni genere di situazione, che indietro non si torna.
Indietro non si torna
Sotto la fattispecie culturale, poi, sono convinto che sia da escludere, oggi, che un’opinione pubblica appena avvertita possa pensare che realmente sia possibile fare riprendere all’opera l’aspetto originario intervenendo sull’immagine ( a parte il fatto che spesso manca ogni documentazione) e che, d’altra parte, se si continua ad esprimersi nei modi che ho accennato sopra (per la verità quasi soltanto da parte di giornalisti frettolosi o superficiali), è solo o principalmente perché siamo succubi dello stesso meccanismo che ci induce ancora oggi a fare uso delle espressioni tradizionali il sole sorge o il sole tramonta e così via, quando si sa da almeno 4 secoli che, se mai, è la Terra che sorge o tramonta rispetto a qualcuno – ammesso che ci sia – in grado di osservare la Terra dal Sole.
Tenuto conto di tutto questo, il risultato è che ci si deve realisticamente contentare – come si è detto - di riuscire a prevenire ogni accellerazione del naturale decorso di degrado dei materiali costitutivi di qualsiasi opera d’arte e che, dal punto di vista della percezione e quindi della fruizione dell’opera, si può sperare solo di riuscire a restituirne l’aspetto originario - o comunque quello più significativo, se in presenza di una stratificazione di interventi susseguitisi nel tempo - ma solo potenzialmente.
E’ questo un concetto profondamente innovativo, messo a punto da Brandi nella sua Teoria del restauro, che ha consentito di pervenire ad una metodologia e prassi del restauro ormai diffuse in tutto il mondo .
Ripristino e invenzione
La spiegazione di un successo così massiccio sta nel fatto che egli riesce, finalmente, a superare i due tipi alternativi di soluzione consolidatisi nel tempo, cioè, da una parte, l’intervento “creativo” mediante completamento mimetico delle parti mancanti ovvero, dall’altra, l’approccio “filologico”, cioè il mantenimento della situazione di non completezza, tutt’al più mitigata dal “trattamento a neutro”, un tipo di intervento che ha avuto larghissima diffusione in Italia dal momento in cui era stato “consigliato” da una norma ministeriale del 1877 .
I rischi derivanti dal primo tipo di soluzione credo siano intuitivi: basti pensare alle traversie cui è andato incontro il celeberrimo gruppo scultoreo del Laocoonte dal momento ( 1506) in cui venne ritrovato e affidato alle cure dei più noti artisti del ‘500, tra cui Giovannangelo Montorsoli, che aggiunse il braccio mancante al padre, fino al recente intervento di sostituzione di esso con uno presunto originale .
Né ( contrariamente a quanto potrebbe sembrare) la situazione cambia radicalmente se si tratta di un dipinto e si arriva a periodi più vicini a noi.
Bisogna considerare infatti che, ancora in pieno Ottocento, la prassi più diffusa era quella di dipingere le parti mancanti facendo i “calchi” degli elementi figurativi analoghi tratti dalla stessa opera o da altre dello stesso autore o di autori a lui vicini , e si può pertanto immaginare che cosa poteva succedere (e accadeva frequentemente) qualora l’opera venisse attribuita ad un autore diverso …
Il restauro “filologico” invece, cioè quello che si limita ad intervenire sui materiali costitutivi dell’opera per garantirne la durata il più a lungo possibile, parrebbe non avere controindicazione alcuna, tanto più se l’effetto di discontinuità reale viene moderato dal “trattamento a neutro” del fondo delle parti mancanti , cioè da stesure di colore a tinta unita affinchè chi guarda non abbia l’impressione di trovarsi di fronte ad un intervento di restauro ancora in corso o, peggio, lasciato in asso - cosa che sarebbe molto probabilmente successa se si fosse lasciato in vista il fondo della lacuna (intonaco, tela, legno e quant’altro) - e d’altra parte non possa equivocare sul fatto che quelle “toppe” monocrome possano essere parti originali o comunque “autentiche” dell’opera.
In realtà, come ebbe ad osservare Brandi, si tratta di una soluzione onesta ma non sufficiente: “onesta”, perché non tenta di camuffare la realtà effettiva dell’opera, come poteva accadere fino a non molti decenni fa soprattutto in ambito di mercato antiquariale o, peggio, clandestino ; “insufficiente”, perché non tiene conto del fatto che ci si trova di fronte ad un’opera d’arte e che, di conseguenza, esiste un obbligo civile (se non proprio etico, come quello che riguarda invece la conservazione e la trasmissione ai posteri del Patrimonio artistico e storico fisicamente inteso) a garantirne una fruizione il più possibile adeguata al suo valore e ai suoi significati.
Cos’è vero restauro
Per trovare una soluzione che evitasse il rischio sia di un’opera talmente manipolata “creativamente” da diventare, più spesso di quanto si pensi, un falso di se stessa sia di un’opera immiserita anche se autentica nella sua consistenza residua, Brandi aveva fatto, nei primissimi mesi di vita dell’Istituto centrale del restauro, tra il 1941 e il 1942, numerosi tentativi, giudicati però da lui stesso insoddisfacenti : fino a quando la necessità di far tornare leggibili i dipinti murali ridotti in frammenti dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale non ebbe a convincerlo che il problema andava risolto a monte, cioè a livello teorico.
Egli osservò pertanto che la fruibilità di un’opera d’arte non è necessariamente subordinata alla sua integrità fisica, perché, a differenza dell’essere vivente, il suo pregio principale non sta nella sua funzionalità ma nella perfetta rispondenza delle singole parti all’opera nella sua interezza: tanto è vero che di fronte ad un uomo mutilato ciò che immediatamente (e dolorosamente) salta agli occhi è ciò che gli manca e che non gli permette una completa funzionalità, mentre di fronte ad un’opera d’arte frammentaria, per es. il Torso del Belvedere, ciò che più colpisce è quel che resta, poichè, appunto, in un’opera d’arte ogni singola parte riflette l’intero.
Se integrità materica e interezza formale possono non coincidere allora il restauro di un’opera può dirsi cosa fatta anche se non si è riusciti a ripristinare l’integrità materica, purchè però sia stata ricostituita l’unità formale dell’opera, cioè la capacità di tornare a produrre nel fruitore effetti il più possibile analoghi a quelli anteriori alla perdita dell’integrità materica.
In questo consiste appunto la restituzione del testo artistico originario (o comunque di quello complessivamente più significativo) e gli strumenti messi a punto da Brandi e dai restauratori dell’Istituto centrale del restauro per raggiungere lo scopo furono essenzialmente due : il tratteggio e l’abbassamento ottico-tonale.
Come recuperare l’aspetto dell’opera più significativo
La prima tecnica, quella più conosciuta e diffusa anche fuori d’Italia, consiste in una serie di tratti sottili, paralleli, verticali, che da lontano ricompongono percettivamente il tessuto pittorico, mentre, a distanza ravvicinata, esso si rivela senza possibilità di equivoci per quello che è, cioè un intervento strumentale alla restituzione dell’unità potenziale dell’opera (nessun pittore in nessuna epoca ha mai dipinto in maniera così volutamente e dichiaratamente astratta, rinunciando a qualsiasi ductus della pennellata). Ad ulteriore scanso di equivoci, oltre che per garantire una reale reversibilità, la tecnica pittorica impiegata è quella dell’acquarello, la cui “testura” cromatica non è confondibile con quella di nessuna altra tecnica pittorica.
L’altra persegue, ovviamente, lo stesso scopo ma in maniera profondamente diversa: forse anche più innovativa, certamente più complessa e difficile, dato che rinuncia al “supporto” percettivo derivante dalla “ricucitura” del tessuto pittorico.
Schematicamente, essa consiste nello “abbassare” in maniera uniforme tonalmente, facendolo diventare più scuro, il fondo delle lacune in modo da farlo retrocedere (appunto, “abbassare”) otticamente fino a farlo coincidere – nei casi più felici – con il fondo e, in ogni caso, ottenendo come risultato che il tessuto pittorico “riemerga” e torni così ad assumere la funzione sua propria di figura rispetto al fondo che, a questo punto, risulterà costituito dall’insieme delle lacune.
Per mettere a punto questa tecnica Brandi aveva fatto ricorso ai più avanzati studi sulla psicologia della percezione che allora, allo scorcio degli Anni Quaranta (e, in realtà, tuttora), erano rappresentati dalla Gestalt-theorie, che aveva approfondito e definito alcuni comportamenti storicamente consolidati della percezione umana, primo tra i quali, appunto, il rapporto figura-fondo nelle sue varie manifestazioni .
In questo modo si può raggiungere l’obiettivo della restituzione del testo pittorico originale o più rappresentativo senza neppure dover ricorrere ad una tecnica di risarcimento della lacuna e quindi di completamento del preesistente tessuto pittorico come avviene, per quanto in maniera ineccepibile perché inconfondibile, impiegando il tratteggio: che diventa però un’opzione obbligata allorquando si è in presenza di lacune non risarcibili, cioè che non presentano le condizioni indispensabili per procedere alla loro reintegrazione senza arbitri o forzature, dato che anche il ricorso ad una tecnica astratta qual è il tratteggio è accettabile solo quando il completamento può avvenire sviluppando i suggerimenti contenuti nelle zone rimaste leggibili
Naturalmente le due tecniche non sono fungibili, anzi debbono essere impiegate in maniera rigorosamente motivata (oltre che, ma questo va da sé, da parte di operatori realmente in grado di comprenderne la funzione oltre che in possesso della necessaria “sapienza manuale” e consolidata esperienza)
Ripristino virtuale dell’aspetto originario
Ma allora – verrà spontaneo chiedersi – non c’è nessuna speranza di potere rivedere un’opera d’arte come era appena uscita dalle mani del suo creatore, a meno che non ne venga scoperta qualcuna rimasta inaccessibile per secoli e pertanto abbastanza indicativa di quello che doveva essere l’aspetto originario?
Certo scoperte di questo genere non avvengono tutti i giorni e comunque questo non basterebbe a ripagarci della impossibilità di conoscere l’aspetto originario degli innumerevoli capolavori che rendono inimitabile il nostro Paese.
Tanto più che la ricostruzione dell’aspetto originario di un’opera risponde anche, e spesso principalmente, ad una esigenza di ricostruzione della nostra identità storica, la cui importanza per lo sviluppo della vita civile non ha bisogno di dimostrazioni.
Bisogna chiarire subito, però, che in genere tali operazioni hanno avuto ad oggetto monumenti e opere di epoche lontane note soltanto attraverso le descrizioni o, nel caso migliore, le illustrazioni che ne sono giunte fino a noi o in condizioni di tale frammentarietà, mutilazione o alterazione da richiedere un impegno non comune in termini di risorse umane ed economiche oltre che di tempo, e non sempre con risultati soddisfacenti .
Più raramente invece si è sentita finora l’esigenza di ricostruire opere d’arte ritenute ancora in buono stato, ma che in realtà non lo sono per nulla se le si guarda con gli occhi di un esperto: perché chi non è del mestiere assai raramente riesce a percepire l’entità del degrado e, di conseguenza, di quanto si perde nella fruizione dell’opera nelle condizioni attuali.
Il non addetto ai lavori, infatti, non ha quasi mai esperienza diretta delle caratteristiche materiche del manufatto artistico, anche a causa di una ormai consolidata tendenza a considerare l’opera reale alla stregua del suo equivalente digitale e , pertanto, priva di consistenza fisica : con la conseguenza di percepire la superficie pittorica solo come un piano colorato e non invece come un insieme di strati , spesso arricchiti da materiali sovrapposti a quello più superficiale (aureole, elmi, corazze, spade e altre decorazioni di vario tipo in oro, argento, stagno )
Ad aggravare la situazione contribuisce la mancanza di abitudine alla osservazione diretta delle opere e il fatto che la stragrande maggioranza di noi generalmente ne è venuta a conoscenza attraverso riproduzioni a stampa di foto risalenti a parecchio tempo prima e, per lo più, relative solo alle parti meglio conservate, quando non “truccate” per nasconderne i danni
Magnificenza di Giotto (e di Assisi)
Un esempio eclatante di questa situazione è offerto proprio dalle Storie Francescane di Giotto nella Basilica Superiore di San Francesco in Assisi, definite su tutti i manuali e studi di storia delll’arte in ottimo stato di conservazione e invece impoverite in maniera seria rispetto all’aspetto originario, come testimoniano in negativo le piccole, a volte microscopiche tracce rinvenute sulla superficie dipinta.
Ciò che in gran parte è sparito - con ogni verosimiglianza a causa di spolverature drastiche ed empirici “lavaggi”, se non di errati interventi di “restauro” - riguarda le finiture pittoriche a secco o con impiego di materiali metallici (le foglie d’oro), grazie alle quali tappeti, tende, vesti, sopravvesti e decorazioni accessorie dei personaggi illustri si mostravano in tutta la loro magnificenza, i fondi azzurri delle scene apparivano compatti e cristallini , le aureole e le lumeggiature d’oro realmente splendevano, mentre invece inarrestabili processi di alterazione chimica hanno reso quasi illeggibili e privi di consistenza materiali come il marmo delle colonne tortili, che invece doveva imporsi all’attenzione del visitatore sia per le caratteristiche del materiale rappresentato che per la funzione da esse svolta di proscenio della complessa impalcatura spaziale di quelle Sacre Rappresentazioni.
D’altra parte, una così accurata opera di ricostruzione, quale quella presentata in questo volume, ha avuto come effetto anche quello di ristabilire i rapporti cromatici e luminosi originari, contribuendo così a fare emergere più chiaramente quei caratteri apparentemente rimasti indenni ma in realtà notevolmente inficiati, quale appunto la struttura prospettica.
Non ci può essere dubbio, infatti, che se si è ormai consolidata l’abitudine a riprodurre nei manuali le singole scene prive della loro inquadratura architettonica, come fossero tanti quadri da cavalletto , privando così l’opera di uno dei suoi caratteri più rivoluzionari, ciò è dovuto in gran parte alla alterazione cromatica di quegli elementi compositivi - intendo colonne e relativi aggetti architettonici - che li rende quasi invisibili.
Nell’apprestarci alla impegnativa e complessa impresa ci siamo imposti come regola inderogabile di non fare ricorso a considerazioni di tipo analogico né, tanto meno, ad integrazioni “creative”, ma di attenerci rigorosamente alle tracce ancora presenti sull’opera, tanto che in alcuni casi siamo stati costretti a non procedere alla ricostruzione ( nella Canonizzazione, a causa della sua lacunosità eccessiva), anche quando si era sicuri che l’aspetto attuale non può essere quello originario ( come nel caso dell’astante con copricapo accanto al leggio nel Presepe di Greccio)
Allo stesso criterio di rigore ci si è ispirati per la identificazione, tramite analisi scientifica, dei materiali costitutivi della pellicola pittorica, sapendo bene che doveva essere questo il punto di partenza obbligato, anche per mettere a disposizione degli studiosi dati oggettivamente valutabili , ma sapendo altrettanto bene che non sempre i pigmenti reperibili oggi sul mercato danno gli stessi risultati dei loro analoghi antichi e pertanto facendone un uso (come sempre dovrebbe essere) critico.
Eternità e prevenzione
Inutile sottolineare come un’operazione di questo tipo voglia assolvere anche, anzi principalmente, ad un compito di grande importanza civile, dato che si pone come un monito permanente sulla fragilità materica di opere, come le Storie Francescane, ritenute, e a ragione, eterne in quanto a valori spirituali e, di conseguenza, sulla necessità di garantir loro una attenzione e una cura permanenti, per prevenire ogni possibile accelerazione del naturale processo di degrado di cui prima si è parlato.
E’ ciò che ha fatto per parecchi decenni, fin dalla sua nascita, l’Istituto Centrale del Restauro (ora Istituto Superiore Conservazione e Restauro), facendo seguire ai primi interventi post-bellici a carattere conservativo una campagna ventennale di restauro di tutte le decorazioni pittoriche della Basilica Inferiore e Superiore (1963- 83) e, poi, annuali interventi di controllo, revisione e manutenzione di quanto già restaurato.
I gravissimi danni conseguenti al terremoto del ’97 hanno reso necessari massicci interventi conservativi e di restauro in particolare sulla Basilica Superiore, sia sulla decorazione pittorica rimasta in situ che sui 300.000 frammenti raccolti dalle macerie e in gran parte ricomposti e ricollocati al loro posto sulla volta del sacro edificio.
Contemporaneamente l’Istituto, interfacciando le immagini ad alta definizione fatte eseguire ad HAL 9000 con le riprese fotogrammetriche precedentemente effettuate da tecnici ISCR , ha messo a punto uno strumento innovativo fondamentale per la documentazione dell’attuale stato di conservazione delle Storie Francescane in quanto non soggetto ad alterazione o degrado nel tempo, a differenza delle riprese fotografiche anche se eseguite con le tecniche più avanzate, e pertanto in grado di fungere da oggettivo punto di riferimento anche in occasione di eventi traumatici .
Una piccola proposta innovativa
A questa complessa trama di intenti si è cercato di dare visibilità e concretezza attraverso una serie programmata e coordinata di manifestazioni che presentano il pregio - ma anche lo svantaggio - di non avere precedenti, e non solo in Italia.
Delle più importanti di esse (le “ricostruzioni” virtuali delle Storie Francescane messe a confronto con le loro condizioni attuali mediante immagini ad alta definizione, il cantiere “reale” – e visitabile - di restauro delle decorazioni e arredi della Cappella di S. Nicola, l’”esperienza virtuale tra i personaggi dell’Approvazione della Regola Francescana”) si troverà in questo volume apposita illustrazione, ma bisognerà almeno fare cenno, in quanto servono ad arricchire la trama di cui prima parlavo, della documentazione tangibile (cioè tramite pannelli trattati cone se fossero pezzi di parete reale) delle fasi principali di un dipinto murale, della rievocazione tramite proiezione di un documentario sul lavoro di restauro della Basilica in seguito al sisma del ’97, dei vari laboratori di attività e ricreazione didattica sia al Monte Frumentario che a Palazzo Vallemani.
note
Come è risultato nella ricorrenza dei 100 anni dalla sua nascita, con più di 100 manifestazioni culturali in 4 Continenti (circa la metà fuori d’Italia), e più di 40 pubblicazioni , di cui 15 con altrettante edizioni della Teoria nelle più importanti lingue del Pianeta (tra cui cinese, giapponese, arabo, russo, persiano)
Emanata da Giovan Battista Cavalcaselle, il “padre” della moderna storia dell’arte del nostro Paese, allora Ispettore Centrale del neonato Stato unitario italiano (cfr. D. Levi, Cavalcaselle. Il pioniere della conservazione dell’arte italiana, Torino, 1988)
Tanto che, parecchi anni fa, un giornale poteva titolare: “Un vandalo irrompe al Museo del Louvre e attacca due braccia alla Venere di Milo”
E’ quanto risulta dai documenti d’archivio essere accaduto ai dipinti murali duecenteschi del portico di San Lorenzo fuori le Mura a Roma
Per parecchi decenni autore delle portelle d’organo del duomo di Genova era stato ritenuto, dai maggiori critici del tempo, il grande pittore cinquecentesco detto, dal paese natale, Il Pordenone: fino a quando dai documenti d’archivio è emerso in maniera inequivocabile il nome di Andrea Ansaldo, un pittore genovese di un secolo più avanti.
Non bisogna dimenticare che , sino alla fine dell’Ottocento e oltre, il nostro Paese era ritenuto la patria dell’industria dei falsi artistici e che autori ne erano generalmente dei restauratori (che infatti a lungo sono stati guardati, proprio per questo motivo, con sospetto)
Famoso, perché lui stesso ne riferisce nella Teoria, quello riguardante l’Annunciazione di Antonello da Messina conservata nel Museo Bellomo di Siracusa
Ma, come egli stesso ha ribadito più volte, ci possono essere tante altre soluzioni tecniche: l’importante è però che lo scopo sia sempre quello di ristabilire l’unità potenziale dell’opera
Un altro principio fondamentale ai nostri fini è quello del completamento modale, in virtù del quale siamo portati senza accorgercene a completare un’immagine che ci si offra mutilata o comunque non completa
Cade quindi completamente l’ipotesi, che ogni tanto qualcuno ripropone, di considerare come corretta la ricostruzione di ciò che manca alla luce di una documentazione preesistente
Intendo dire che non basta la pura e semplice abilità manuale, anche se a livello altissimo: non a caso uno dei motti preferiti di Brandi era “prima la testa e poi le mani”. Naturalmente bisogna evitare di confondere – come fa qualche sedicente esperto - l‘ abbassamento ottico-tonale con il neutro
Per fare degli esempi a caso, il “Colosso di Rodi”, il gruppo equestre in bronzo del cd “Parasole” di Pavia, il monumento equestre di Leonardo a Francesco Sforza
Ancora una volta degli esempi a caso: il “ripristino” della Stoà di Attalo nell’Agorà di Atene, aspramente criticata da Brandi, il “ripristino” ( in realtà la costruzione ex novo) del teatro romano di Sagunto, e qualcosa di simile in corso per la Villa romana del Casale presso Piazza Armerina
Che rispecchia, peraltro, una più generale tendenza della nostra attuale società
Mi riferisco alla pratica, durata decenni, di “ritoccare” le lastre di vetro o le pellicole negative (oggi del resto si “restaura” utilizzando le tecniche digitali)
Mi chiedo quanti si sono accorti che le mensoline dipinte in maniera “prospettica” riprendono quelle vere nella parte alta dello zoccolo
Altrlki casi irrisolti: la nuvola dietro la mano del Santo nel riquadro con Francesco fatto preghiera; il colore del tondo nella Morte del Santo; la identificazione e la individuazione cromatica di parecchi particolari nel Riconoscimento delle Stimmate; i motivi decorativi della coltrice e delle armature nella Confessione di una donna risuscitata
Contrariamente alla tendenza ad agire da “piazzista” recentemente instauratasi
La stessa operazione ho fatto fare al ciclo della Cappella Scrovegni e dovrebbe essere fatto all’Ultima Cena di Leonardo
Parallelamente ho promosso e sostenuto la nascita presso il Sacro Convento di una struttura, la Fondazione S. Francesco, con lo scopo di raccogliere fondi per la manutenzione della Basilica