Lo splendore sull’abisso. La chiesa di San Domenico e l’«Età dell’oro» a Castelvetrano
di Giovanni Falcetta
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
(Dante, Inferno, Canto XXXIV, v. 139)
Dopo aver sfogliato il saggio La Chiesa e il Convento di San Domenico in Castelvetrano, pubblicato recentemente, grazie alla munificenza di Angelo Mazzotta editore, a firma di A. Giardina, F.S. Calcara e V. Napoli, testo accuratissimo nell’analisi storiografica, basata su dettagliate e aggiornate fonti bibliografiche, inclusi centinaia di manoscritti, ma anche contenente un ricco e pregevole corredo iconografico a colori e in bianco e nero, ad un certo punto l’ho chiuso provando a fare un piccolo esperimento. Mi sono chiesto, cioè: quali immagini del libro, quali elementi storici, quali parole mi sono rimaste particolarmente in mente, quali ricordi esso ha evocato in me? E, istintivamente, come emersi da un casuale flashback cinematografico, da un confuso flusso di coscienza freudiano, ho focalizzato nella mia memoria alcune figurazioni. La prima è l’immagine del Sarcofago di Ferdinando Tagliavia e Aragona, detto del Guerriero giacente (1549 ca.).
Sarcofago di Ferdinando Tagliavia e Aragona (foto Polizzi)
La seconda è quella dell’affresco con la rappresentazione della Battaglia di Lepanto, che si conserva sulla parete sinistra della Cappella del Rosario. E, subito, i seguenti incipit di due dei più celebri poemi cavallereschi della Letteratura italiana del XVI secolo: quello dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano. [1]
E quello della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso:
Canto l’arme pietose e ’l capitano
Che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti. [2]
Perché le immagini del libro hanno acquisito particolare evidenza nella mia memoria e si sono associate immediatamente alle citate loro germinazioni letterarie? Intanto per una loro connessione anamnestica con la mia (nostra) infanzia e adolescenza. Ricordo, infatti, che, dall’età compresa tra dieci e quindici anni, quando penetravo all’interno della chiesa di San Domenico, la mia immaginazione, proprio partendo da quelle immagini sopra evidenziate, favoleggiava di una specie di mitica “età dell’oro” o “età degli eroi”, favoleggiamento maggiormente accentuandosi proprio con lo studio, negli anni del liceo, dei poemi cavallereschi dell’Ariosto e del Tasso.
Affresco della Battaglia di Lepanto (foto Polizzi)
E, nello specifico, l’affresco della Battaglia di Lepanto e la statua del Guerriero giacente si inseriscono perfettamente in questa cornice mitico-memoriale individuale e, insieme, collettiva, collegata al mondo cavalleresco e alle crociate come anche la fantasmagorica, sfavillante, ormai chiaramente “manieristica” rappresentazione dell’Albero di Jesse, dedicata alle complesse origini genealogiche dell’Incarnazione. Le figure appese a tale albero, in stucco e in altorilievo, ricoperte di lamine dorate, evocano atmosfere esotiche, da sogno orientaleggiante (si pensi, tanto per fare un riferimento letterario, al Milione di Marco Polo o a Le mille e una notte). Le dorature, anche nella truttura e nelle immagini dell’opera, richiamano naturalmente quelle dell’esperienza bizantina, anche arabeggiante (interno del Duomo di Monreale, della Cappella Palatina, di Santa Sofia a Costantinopoli, della Basilica di San Marco a Venezia, di Santa Apollinare in Classe a Ravenna, ma anche la tradizione manieristico-barocca del “gotico flamboyant” del Nord Europa – pensiamo alla facciata degli edifici nella Grande Place di Bruxelles…).
L’Albero di Jesse (foto V.Napoli)
La fattura anatomica dei personaggi, la loro fisiognomica, apparentemente “rozza”, indulge ad un gusto popolaresco come anche la struttura dell’albero echeggia quasi il popolaresco mito dell’“Albero della Cuccagna”. Ancora popolareggianti appaiono i riferimenti di taluni affreschi che ricordano le raffigurazioni policrome dei “carretti siciliani” o delle tavole dei cantastorie, come, ad esempio, nel Presbiterio, il riquadro in cui si raffigura il momento in cui Tobia, di ritorno da un lungo viaggio iniziatico, accompagnato dall’angelo e dal cane, restituisce la vista al padre cieco.
Tobia restituisce la vista al padre (foto Polizzi)
Si considerino, pure, il Presbiterio e la Cappella del Coro che, se visti nel loro insieme, si presentano all’osservatore come delle finte “quinte teatrali” (pensiamo all’Opera dei Pupi o al Teatro Scientifico del Bibiena, a Mantova), creando suggestioni sceniche tipiche del manierismo.
Tali suggestioni memoriali, introiettate, attraverso l’“imprinting generazionale”, nella nostra memoria individuale ma anche popolare, sono connesse alla millenaria storia della Sicilia e delle varie civiltà e popoli che l’hanno abitata e, quindi, alla sua identità storico-culturale, alla sua “tradizione” e, come tali, si riflettono sul presente e si proiettano nel futuro. Questo, in maniera più o meno diretta, ce lo rammentano antropologi come Claude Levi Strauss, Margaret Mead ma anche storici, quali Jacques Le Goff, Marc Bloch, senza tralasciare l’etnopsicoanalisi o, di recente, gli studi dell’egittologo Jan Assmann che, nel suo saggio Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà, [3] si è occupato, come recita la presentazione editoriale:
del ricordo, dell’identità e della perpetuazione culturale, cioè del costituirsi della tradizione. La constatazione di partenza è che ogni cultura sviluppa una sorta di struttura connettiva, che agisce istituendo collegamenti e vincoli entro la dimensione sociale e quella temporale. Infatti la cultura lega l’uomo al suo prossimo creando uno spazio comune di esperienze, di attese e di azioni, ma lega anche il passato al presente, modellando e mantenendo attuali i ricordi fondanti, e includendo le immagini e le storie di un altro tempo entro l’orizzonte del presente, cosi da generare speranza e ricordo: questo aspetto della cultura è alla base dei racconti mitici e storici. Gli esempi di cui si serve Assmann per illustrare lo strutturarsi della memoria culturale sono tratti dall’antichità: Mesopotamia, Ittiti, Israele e Grecia al pari dell’antico Egitto, con l’obiettivo di ricostruire i nessi culturali, e più precisamente il nesso fra ricordo (collettivo), cultura dello scritto ed etnogenesi.
Se noi sostituiamo all’espressione «cultura dello scritto» «cultura dell’immagine», credo che il suo discorso rimanga sempre valido. Nello specifico della chiesa di San Domenico, lo studio di tutte le sue articolazioni espressivo-iconologiche, da quelle architettoniche ai suoi affreschi, dalle sue sculture ai suoi stucchi, alle sue tele, alle notizie storiche presenti nelle iscrizioni lapidarie o nei manoscritti, e la divulgazione di queste conoscenze servono allo strutturarsi della memoria culturale del popolo siciliano, a mantenere la consapevolezza della sua identità storica, passata, presente e futura, come nei miti dei popoli antichi. Non possiamo conoscere, cioè, il presente, né viverci, né proiettarci, o agire, in una prospettiva di costruzione del nostro futuro culturale, economico e sociale, se perdiamo la coscienza del nesso necessario, complesso, psicologico, ma, soprattutto, storico-culturale che ci lega al nostro passato. La nostra stessa identità attuale e futura, come individui singoli e come collettività presuppone cioè la necessità di «modellare e mantenere attuali i ricordi fondanti della nostra storia, e di includere le immagini e le storie di un altro tempo entro l’orizzonte del presente, cosi da generare speranza e ricordo».
A tale fine risulterà di fondamentale importanza la lettura, lo studio attento dei vari capitoli del libro di Giardina, Calcara e Napoli, dedicato alla chiesa di San Domenico. Ma, in esso, essendo la chiesa, oltreché un luogo di culto, una “fonte storica” ma, soprattutto, un formidabile e irripetibile scrigno di opere d’arte, è necessario osservare ed imparare ad apprezzare il notevole valore artistico di queste ultime, impegnandosi, proprio per non perdere la nostra preziosa identità culturale, a salvaguardarne l’esistenza. Da qui la necessità della loro continua manutenzione, del loro costante restauro, della loro attenta divulgazione, come mirabilmente ci ha insegnato il nostro compianto Giuseppe Basile, che, a tale scopo, ha dedicato, per anni, spesso disinteressatamente, il suo impegno di storico dell’arte e di grande esperto del restauro.[4]
Giuseppe Basile
San Domenico si può dire, ormai, definitivamente restaurata in tutte le sue parti fondamentali esterne ed interne. Ma quanto tempo si è sprecato per giungere a questo felice esito! Scrivono i curatori del libro, in Appendice V, per introdurre una lettera del 15 dicembre 1984 inviata da Basile ai componenti del comitato cittadino creato per promuovere il recupero di San Domenico: «Alla fine del 1984 sembrava imminente la definitiva riapertura della chiesa, per la quale, invece, si son dovuti attendere altri trent’anni». [5] Della lettera di Basile vogliamo riprodurre alcuni importanti annotazioni:
Chiedersi che cosa fare di San Domenico, a che uso destinarlo, sembra quasi superfluo. Il monumento ha infatti come nessun altro nella nostra città i requisiti per essere considerato un museo in se stesso. A cominciare dalla decorazione architettonica (stucchi ed affreschi) fino alle opere non connesse strutturalmente all’architettura e che, in termini di tutela del patrimonio culturale, si suol chiamare “mobili”: quadri, statue, monumenti funerari, stalli corali e così via. Per di più corrispondono quasi tutte al periodo di maggiore splendore della casata feudale, i Tagliavia, che la chiesa avevano scelto a mausoleo della famiglia. Cosicché dalla fine del ’400 ai primi decenni del sec. XVII è tutta una sequenza di opere di notevole interesse che mostrano come i signori di Castelvetrano mirassero ad abbellire la loro chiesa servendosi di artisti della più varia provenienza ma sempre scelti fra coloro che davano comunque garanzie di conoscere bene il mestiere.
E, a questo punto, Basile enumera, come un florilegio, i maggiori capolavori della chiesa e gli artisti che ne furono gli autori:
La Madonna di Loreto, statua in marmo, attribuita da più di uno studioso al grande artista dalmata Francesco Laurana, certamente il più stimolante ed affascinante fra gli scultori allora operanti in Sicilia; e poi il dipinto su tavola raffigurante S. Vincenzo Ferreri, del 1525 circa, riferito allo spagnolo Antonello Benavides e già esposto, nel 1953, alla mostra su Antonello da Messina; e poi il monumento sepolcrale in marmo, con figura del giacente, di Ferdinando d’Aragona Tagliavia, morto nel 1549; la grande copia su tavola della Caduta sulla via del Calvario di Raffaello, eseguita dal cremonese Giovan Paolo Fondulli nel 1574. […] Del medesimo artista, che lavorò a lungo in Sicilia dopo il trasferimento da Cremona, e degli stessi anni, sono due dipinti anch’essi su tavola raffiguranti S. Domenico (attribuito) e una Sacra Famiglia e Santi (firmata e datata 1573). […] Tra il 1574 e il 1577 Antonino Ferraro da Giuliana decora con stucchi e affreschi la Cappella del coro e dal ’77 all’’80 il Cappellone: una folla esuberante di figure a tutto tondo e di scene a rilievo o dipinte, riferentesi ai misteri dell’Incarnazione (Albero di Jesse). Nello stesso torno di tempo l’olandese Simone di Wobreck esegue un interessantissimo dipinto su tavola con la Circoncisione, ospitato in una magnifica cornice di legno dorato e dipinto, essa stessa opera di raffinata abilità artigianale (datata 1580). Tra la fine del sec. XVI e gli inizi del successivo si pongono il grande Crocifisso in legno nella prima cappella a destra, la tela di Bartolomeo Navarretta raffigurante la Vergine che appare a S. Giacinto (1599) recuperata dopo il terremoto in condizioni disastrose, la tela del trapanese Vito Carrera con S. Raimondo di Pennafort, le due tele di Orazio Ferraro (figlio di Antonino) rappresentanti l’Adorazione dei Magi e l’Orazione nell’Orto ed una terza, la Madonna del Rosario […] trafugata non molto tempo fa. Se si aggiungono la tomba gentilizia degli Aragona-Tagliavia nella Cappella del coro, gli stalli corali, l’altare maggiore, l’organo, il pulpito, i frammenti di pavimento maiolicato […] credo ce ne sia a sufficienza per giustificare una utilizzazione della chiesa come museo. [6]
Per le altre opere rimandiamo al testo del libro. Da quanto abbiamo detto la chiesa di San Domenico risulta, nel suo complesso ma, soprattutto, al suo interno, un’opera di assoluta preziosità, con le sue ardite architetture manieristiche, le sue pregevolissime statue marmoree, i suoi stucchi, le sue opere lignee, le sue tele, i suoi affreschi, talché essa riflette proprio una specie di “epoca felix” nella storia della famiglia feudale dei Tagliavia e Aragona ma, anche, della città di Castelvetrano.
Presbiterio e Cappella del Coro (foto V. Napoli)
Riprendiamo ancora la propensione di Basile a far di San Domenico un museo in sé. A questo punto, da grande esperto del settore, egli elenca le precondizioni per realizzare tale risultato:
Per fare un museo però non basta disporre di un edificio, pur se monumentale e di indubbio interesse storico, e di una serie di opere anch’esse di riconosciuto livello artistico che di quell’edificio completano la fisionomia decorativa così come essa si è andata stratificando nei secoli. Non basta portare a termine il restauro dell’edificio e delle sue decorazioni, fisse o amovibili; non basta ricollocare al loro posto la statua e i dipinti, rendendoli ben visibili con adeguata illuminazione; né infine basterà. dotare la chiesa museo di tutti quegli impianti di sicurezza che servano a prevenire i danni accidentali (tipo incendi) e a rendere se non impossibili almeno non facili quelli volontari (danneggiamenti, furti, etc.). Bisognerà infatti porsi il problema della gestione del museo e dei costi conseguenti, che vanno da quelli di puro mantenimento delle condizioni di sopravvivenza e di sicurezza del contenitore e delle opere esposte, fino a quelli derivanti dalla funzione culturale e sociale del museo. E già i primi, da soli, comportano certamente oneri non indifferenti, a cominciare dalla manutenzione dell’edificio e delle opere, che deve essere tempestiva e continua, se non si vuole che fra qualche anno si debba di nuovo temere per la perdita del monumento; ci sono poi le spese di manutenzione e di funzionamento degli impianti (antincendio, antifurto) e quelle del personale di custodia, che in un museo deve essere presente sia durante le ore di apertura che in quelle in cui l’edificio è chiuso al pubblico: e, infine, le spese in virtù delle quali un museo non è soltanto un edificio con opere da vedere, ma un centro di attività culturale: al quale fine, però, bisogna riconoscerlo, prioritarie sono la coscienza dell’utilità sociale del museo e la disponibilità di energie e competenze umane. Voglio dire insomma che, anche nel caso di un museo, si pone il problema di valutare la convenienza “economica” dell’iniziativa, non nel senso più rozzamente utilitaristico del ricavo immediato e spicciolo, non essendo i Beni Culturali per loro natura beni di consumo ed essendo anzi per definizione beni irripetibili, ma nel senso più ampio e serio di un utile complessivo che alla comunità, cui quei beni appartengono, certamente ne viene. Un utile indirettamente anche monetario, se li si usa con prudenza e si tiene conto che, sebbene “eterni”, sono costituiti pur sempre di materiali estremamente deperibili. [7]
Parole attualissime visto che, ancora oggi, in Sicilia e, purtroppo, anche nel resto d’Italia, siamo ben lontani dall’aver preso coscienza civile e politica del valore inestimabile del nostro patrimonio artistico-culturale e della necessità della sua costante salvaguardia e valorizzazione.
Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Note
1 Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, introduzione, note e commenti di M. Turchi, presentazione di E. Sanguineti, Garzanti, Milano 199213.
2 Cfr. T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di A. M. Carini, Feltrinelli, Milano 1961.
3 J. Assmann, Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, trad. it. Einaudi, Torino 1997.
4 Giuseppe Basile (Castelvetrano, 2 gennaio 1942 – Roma, 30 luglio 2013) è stato uno dei più profondi conoscitori del patrimonio artistico italiano medievale e moderno. Negli anni Sessanta si laurea, a Palermo, con Cesare Brandi, diventando suo collaboratore ed erede scientifico. Dal grande storico dell’arte senese Basile eredita l’amore per la teoria del restauro e un’indiscussa acribia per quanto concerne l’analisi storico-filologica dei manufatti artistici: ed è questo un lascito scientifico su cui lo stesso studioso siciliano si sofferma a riflettere in una monografia pubblicata nel 2008, Teoria e pratica del restauro in Cesare Brandi (edizioni Il Prato). Nel 1976, dopo aver frequentato la Scuola di perfezionamento in Storia dell’Arte, diretta da Giulio Carlo Argan, Basile entra all’Istituto centrale del restauro di Roma di cui dirigerà, dal 1987 al 2006, il Servizio per gli interventi sui Beni artistici e storici. Nel 1995 diventa, inoltre, membro della Pontificia Commissione per i Beni culturali della Chiesa e della Pontificia Commissione per l’Archeologia sacra. La sua esperienza ai vertici delle Istituzioni dello Stato e la sua attività didattica svolta presso l’Università di Roma “La Sapienza”, dove insegnava Teoria e storia del restauro, gli permetteranno di formare diverse generazioni di restauratori e di storici dell’arte e di coordinare quasi tutti i principali progetti di restauro realizzati in Italia negli ultimi decenni: basterebbe ricordare, fra gli innumerevoli interventi effettuati, il complesso restauro degli affreschi giotteschi della Basilica di San Francesco d’Assisi, distrutti dal terremoto del 1997, o quello della Cappella degli Scrovegni a Padova, e poi, ancora, il difficile salvataggio del Cenacolo di Leonardo da Vinci a Milano o il restauro degli affreschi della Camera dei Giganti a Palazzo Te, a Mantova. A Palermo ha curato il restauro del Castello della Zisa e dei mosaici della Cappella Palatina.
5 Cfr. A. Giardina, F.S. Calcara e V. Napoli, La Chiesa e il Convento di San Domenico in Castelvetrano, Angelo Mazzotta editore, Castelvetrano 2015, Appendice V (Lettera di Giuseppe Basile, 15 dicembre 1984), pp. 259-260. Le foto che illustrano la chiesa – riportate anche nel presente articolo – sono di Vincenzo Napoli e Gianni Polizzi.
6 Ibidem, pp. 259-260.
7 Ivi
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Giovanni Falcetta, già insegnante di materie letterarie, è stato lettore di Lingua, letteratura e cultura italiana, presso il Dipartimento di Scienze linguistiche dell’Università di Tirana, dal 1999 al 2002, e presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pula (Croazia), dal 2002 al 2006. Ha svolto alcuni progetti di ricerca, nell’ambito della Storia contemporanea, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha tradotto diversi classici della letteratura di viaggio, tra i quali si segnala: Charles Didier, La questione siciliana, Novecento, Palermo 1991.
Fonte sito web Dialoghi mediterranei