La sfida: restaurare il contemporaneo
ARTE/1 UN CONVEGNO DELL' ISTITUTO CENTRALE DI ROMA APRE PROSPETTIVE INESPLORATE. I CASI DI BURRI E KOONS
(13 giugno 2008) - Corriere della Sera
La sfida: restaurare il contemporaneo
Giuseppe Basile: «La chimica aiuta a salvare i nuovi materiali»
Prendi Jeff Koons, l' artista vivente più quotato del pianeta (23,6 milioni di dollari per «Hanging heart»). Tempo fa uno dei tre palloni dell' opera «Three Ball 50/50 tank» esposta con orgoglio al Moma di New York (tre palloni, appunto, immersi in un acquario, «simboli di purezza, vita e perfezione» secondo l' autore) si sgonfia. Panico tra i curatori: come restaurare questo capolavoro? Poi, l' uovo di Colombo: telefoniamo a Jeff. Koons risponde: «Nessun problema. Scendo qui da Adidas, ne compro un altro e ve lo mando». Altra scena, molti anni fa alla Galleria nazionale d' arte moderna di Roma. Una plastica bruciata di Burri comincia a perdere un brandello. Anche lì, curatori nei guai. Ma Burri è ancora vivo. Altro uovo di Colombo... Telefonata. Il Maestro arriva, guarda, stacca il pezzetto con la mano: «Va benissimo anche così. Arrivederci». Il problema del restauro dell' arte contemporanea può presentare lati grotteschi. Ma resta un problema. Il paludatissimo Istituto centrale per il restauro dedica il 3 luglio una giornata di studio su proposta di Giuseppe Basile (restauratore del Cenacolo di Leonardo, del Giotto di Padova e di Assisi). Spiega uno dei relatori, Oscar Chiantore, docente di Chimica e tecnologia dei polimeri a Torino: «L' arte contemporanea ricorre spesso a materiali deperibili. In più molte opere vengono spostate con minore attenzione, più "usate", quindi si danneggiano facilmente». Avverte Nunzio, invitato come artista-protagonista del dilemma: «L' arte contemporanea è di per se transitoria. Ciò che resta, resta e ciò che non resta, non resta. Prendiamo una famosa performance di Robert Smithson, la colata di catrame lungo la montagna. Non esiste più ma rimane nel nostro immaginario». Ma in quanto all' arte che dovrebbe restare? «Dipende dall' autore. Io presto attenzione ai materiali, scelgo quelli più duraturi. Il buon legno. O il gesso, a patto che non subisca traumi». Mezzo mondo dell' arte da vent' anni si interroga su un nodo: come tramandare ai posteri opere in plastica e materiali poveri, quadri dipinti con colori non naturali? Spiega Antonio Sgamellotti, docente di Chimica a Perugia, presidente dello Smaart, laboratorio mobile per il restauro dell' arte: «Alla Tate Britain abbiamo curato alcuni dipinti di Andy Warhol colpiti da macchie biancastre provocate dai sulforanti mischiati ai colori del tempo. Abbiamo messo a punto solventi speciali che non alterino le tonalità. Ci sono voluti un microscopio a forza atomica e molte spettroscopie». Sgamellotti è autore di una scoperta: «Alla Tate Modern impazzivano per i problemi dei murali Seagram di Rothko. Scoprimmo cera nel colore. Impossibile, dissero i curatori, la marca era Magna Colours: quale cera? Studia e studia, uscì fuori che dal 1958 al 1960, su richiesta di alcuni artisti, Magna Colours aveva aggiunto cera per fluidificare i colori. Poi Morris Louis protestò per il contrario. La cera venne tolta nel ' 60. Il ciclo Seagram è del 1959». Durante il convegno, Basile illustrerà gli ottimi risultati ottenuti dall' Istituto con il restauro di due opere della Fondazione Burri di Città di Castello, «Tutto nero» e «Bianco e nero». Si parlerà anche di altri interventi, su la «Maternità» di Pino Pascali, e «Il cavallo morente» di Francesco Messina alla Rai. Tra poco l' Istituto diplomerà, per il secondo anno, altri quattro restauratori specializzati nel contemporaneo (guidati da Paola Iazurlo, Grazia De Cesare e Maria Grazia Castellano). Racconta Basile: «Per "Bianco e nero" di Burri abbiamo agito sul materiale, il Cellotex, una sorta di legno artificiale. Il bianco si stava ingiallendo per alcuni micro-organismi. In quanto al cretto, Burri aveva indebolito il telaio temendo una tela troppo tesa. Ma così si è creato un cretto non voluto dall' autore. Abbiamo applicato una protesti all' intelaiatura». Basile, che è pronto a giurare su una «accresciuta sensibilità generale sull' arte contemporanea e quindi anche del suo restauro»», ricorda il primo caso di non-restauro: «Nel 1985 la Sfera Grande di Pomodoro, per colpa della cattiva installazione del 1969 realizzata a colpi di cemento, diventò non restaurabile nonostante la nobiltà della lega statuaria in bronzo. Dovemmo ricorrere a una nuova fusione. Lì mi si spalancò un mondo nuovo, nel campo del restauro». Ma tra poco l' Istituto affronterà un progetto grandioso: il ripristino del Grande Cretto, sempre di Burri, sulle colline di Gibellina: 65000 metri quadrati di superficie. Altro che restauro...
Conti Paolo
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(13 giugno 2008) - Corriere della Sera
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