SCOPO CONTENUTI CARATTERI DEL CONVEGNO La realtà dell’utopia I Convegno Internazionale di Primavera sul Restauro
I Convegno Internazionale di Primavera sul Restauro
Scopo principale del convegno è il tentativo di ripristinare una prassi che si è andata man mano affievolendo fino quasi a perdersi, una prassi in base alla quale in presenza di casi di profonda complessità si attivavano iniziative di dibattito specialistico che coinvolgevano non solo gli enti giuridicamente responsabili ma anche, a vari livelli e in varie forme, la comunità scientifica specificamente competente.
A spiegare il ricorso sempre più raro a tale prassi possono essere invocati vari motivi: - il prevalere di preoccupazioni di tipo conservativo di fronte all’accellerarsi ed all’espandersi di fenomeni di degrado sempre più evidenti
- l’interruzione della prassi tradizionale di trasmissione a livello personale della capacità di giudicare la correttezza metodologica di un intervento di restauro, una “sapienza” di tipo ancora – per così dire – artigianale ma quanto mai preziosa soprattutto in assenza di una adeguata attività di formazione in tal senso, sia a livello universitario e post universitario, sia da parte della Amministrazione pubblica di tutela (non mi stancherò mai di ricordare come sia stata troppo presto lasciata cadere una delle intuizioni più vitali contenute nell’atto istitutivo dell’Istituto centrale del restauro e cioè la prescrizione di un periodo di tirocinio presso di esso da parte dei funzionari di nuova nomina prima di raggiungere le sedi degli enti periferici di tutela loro assegnate)
- il lento ma finora inarrestabile processo di surroga della valutazione specialistica dei risultati di un restauro mediante operazioni di marketing culturale in cui il giudizio viene soppiantato dall’attività promozionale, che è un modo profondamente errato di rispondere alla sacrosanta esigenza di informare la pubblica opinione.
Due prodotti tipici di questa situazione possono essere individuati nello scatenarsi sempre più frequente di polemiche sul modo di condurre un certo restauro senza specifici riferimenti al caso concreto o addirittura inventando l’oggetto del contendere (per rimanere nell’ambito della Basilica di S. Francesco citerò solo il caso del tetto della Basilica Superiore che sedicenti esperti ritenevano causa principale dei crollo nella volta perché in cemento, non arretrando neppure dinanzi alla constatazione obbligata che si trattava di un tetto in mattoni di terracotta vuoti ) e nella abitudine di presentare i risultati (invariabilmente eccezionali) dei restauri effettuati senza preoccuparsi di motivare le scelte effettuate : ingenerando con ciò la falsa convinzione che nel restauro le soluzioni sono scontate e che pertanto sia sufficiente, in via generale, scegliere bene prodotti e metodi tecnologici per essere sicuri di avere realizzato un restauro corretto – al massimo facendo ricorso, da parte di operatori più sofisticati, ad una casistica il cui valore di strumento pratico di grande ausilio per il restauratore non sempre va a beneficio della correttezza culturale dell’operazione.
E’ sembrato perciò non solo opportuno ma doveroso recuperare un modo di procedere più corretto in un caso come quello della reintegrazione delle lacune in un
dipinto murale in frammenti come è quello dei Santi crollati dall’arcone adiacente alla controfacciata della Basilica Superiore.
Allo scopo sono stati coinvolti specialisti di chiara fama, sia italiani che stranieri, con i quali sono stati attivati seminari preparatori all’argomento centrale del presente convegno, in particolare il 23 settembre dello scorso anno 2000, quando a discutere del futuro di quei frammenti sono stati chiamati restauratori, storici dell’arte, architetti, archeologi, scienziati operanti sia nell’Amministrazione di tutela dei Beni Culturali che nelle università e nella libera professione.
E già prima a rendersi conto della problematica erano venuti i componenti del Comitato di Settore per i Beni architettonici e di quello per i Beni artistici e storici, i 2 supremi organismi consultivi del Ministero per i Beni e le attività culturali – per non parlare del missus dominicus dell’Unesco in ricognizione per valutare la rispondenza del monumento principe della città ai requisiti richiesti per l’ammissione di Assisi nella lista del patrimonio mondiale.
Del resto informazioni essenziali ma esaustive erano state fornite alla pubblica opinione da subito, ancora in piena emergenza postsismica, pubblicando a cadenza trimestrale brevi Quaderni della Basilica con lo stato di avanzamento dei lavori ai vari livelli e per i diversi settori interessati (l’edificio del complesso conventuale e della Basilica, i dipinti murali rimasti in situ, quelli raccolti in frammenti e poi man mano riassemblati, ricomposti e restaurati, il progetto di riassemblaggio mediante computer dei 120.000 frammenti della vela di S. Matteo di Cimabue).
E mi si consenta a questo punto un breve inciso della cui opportunità allo scopo di prevenire equivoci sono sempre più convinto. Il restauro è un’attività altamente specialistica che per di più si esercita su oggetti preziosissimi in quanto unici e perciò irripetibili: di conseguenza, è quasi superfluo ripeterlo, esso deve essere sempre affidato ad operatori di sicura formazione e di provata esperienza. Ma non basta: bisogna ribadire con estrema chiarezza, contro ogni atteggiamento apparentemente “democratico”, in realtà profondamente (anche se spesso involontariamente) demagogico, che le decisioni su come fare il restauro debbono essere lasciate agli specialisti – intendo a quelli veri, non a coloro che si trovano a dovere rispondere dei risultati di un restauro per compito d’ufficio, non sempre, anzi, per la verità, raramente attrezzati in maniera adeguata a questo scopo.
Le decisioni relative ad un restauro non possono essere oggetto di pubbliche discussioni: come non lo sono – e nessuno si sognerebbe di chiederlo – quelle relative ad un intervento chirurgico.
Quello che può e deve interessare a tutti è che l’intervento garantisca al paziente umano rinnovate chances di vita ed all’opera d’arte le maggiori chances di trasmissibilità al futuro nella sua residua integrità materica, senza la quale anche la “forma” perde di valore o addirittura cessa di esistere.
Sarebbe fuor di luogo ricordare agli addetti ai lavori presenti quale sia il ruolo dell’autenticità nel sistema dei valori sotteso alla moderna teoria del restauro, almeno da quando – più di un secolo fa – esso fu delineato e sistematizzato da Alois Riegl.
Altrettanto superfluo ricordare che il concetto di autenticità non ha avuto certo origine nel campo del restauro e che se mai a questo è pervenuto per desunzione da altri ambiti disciplinari ben più importanti, estesi e antichi.
Mi è parso allora che potesse non essere privo di interesse chiedersi se in alcuni di questi altri ambiti il concetto di autenticità gioca ancora oggi, in tempi di globalizzazione o quanto meno di interscambi culturali così rapidi e pervasivi, un ruolo fondamentale : e pertanto sono stati invitati a trattarne giuristi, psicologi, teologi, esperti nella comunicazione.
Dai loro contributi sarà più facile capire se la tradizione in cui affonda le sue radici la teoria e la prassi italiana del restauro - soprattutto alla luce della rigorosa configurazione ricevuta dall’opera di pensatore e “realizzatore” svolta da Cesare Brandi nella sua qualità di docente di teoria e storia del restauro delle opere d’arte alla Scuola di Perfezionamento dell’Università di Roma La Sapienza e di fondatore e primo direttore dell’Istituto centrale del restauro – si pone ancora come attuale o se invece è da considerare superata, anche se parzialmente o per singole articolazioni tematiche (da qui la presenza di storici dell’arte, architetti, archeologi ma anche estetologi, proprio in forza della constatazione, del resto tutt’altro che inedita, che Brandi non era un “addetto ai lavori” che si poneva anche interrogativi teorico-pratici sulla attività di restauro, ma un pensatore particolarmente interessato alla attività artistica che era riuscito a creare un sistema estetologico in cui il restauro veniva ad assumere, per la prima volta nella storia, un ruolo di fondamentale importanza per la storia della cultura).
Uno dei primi problemi di cui Brandi dovette occuparsi immediatamente dopo la fondazione dell’Istituto fu costituito proprio dall’intervento di Mauro Pelliccioli sui dipinti murali della Basilica Superiore e in particolare sulle Storie francescane di Giotto. Un confronto drammatico in cui venivano a confliggere concezioni diametralmente opposte nonostante il comune, tradizionale richiamo al rispetto del testo pittorico (secondo lo slogan: Non mettere pennello, cioè non aggiungere, completare, rinforzare nulla in un dipinto originale proprio perché ciò ne avrebbe diminuito il valore di autenticità ) e che ebbe modo di deflagrare qualche anno più tardi quando il celebre restauratore si rifiutò di rivelare la composizione di un impacco mediante il quale era riuscito a rimuovere la polvere accumulatasi sopra le pareti della Cappella Scrovegni in seguito alla rimozione dei sacchetti di sabbia messi a protezione durante la guerra senza portare via il colore pulverulento sottostante, soprattutto l’azzurro dei fondi.
In realtà non poteva esserci maggiore distanza tra i 2 modi di concepire il restauro, fondamentalmente ancora artigianale e dai risvolti “magici” nel restauratore, assolutamente innovatore nelle sue dimensioni speculative in Brandi che non a caso avrebbe finito col rendere più complesso il concetto di autenticità nel restauro portandolo fuori dalle secche della contrapposizione zona originale – zona neutra (cioè priva di intervento pittorico di qualsiasi tipo) che ormai aveva esaurito da un pezzo il suo valore di manifesto di un atteggiamento deontologicamente corretto. All’inizio della grande campagna di restauro che nell’arco di un ventennio, dal 1963 al 1983, quasi ininterrottamente, avrebbe interessato l’intera decorazione pittorica
medievale delle due Basiliche e degli ambienti conventuali, l’Istituto disponeva di una esperienza ormai estesa nel tempo (più di un ventennio) ma soprattutto articolata e continuamente sottoposta a verifiche di tipo metodologico, scientifico, sperimentale, didattico.
Ciononostante, tra la prima e la seconda fase del cantiere e soprattutto a cominciare dalla seconda metà degli anni ’70, coincidenti con l’intervento sui dipinti della Basilica Superiore, è possibile notare differenze non marginali, sia sotto l’aspetto organizzativo che sotto quello dell’affinamento teorico-pratico nel modo di risolvere i non comuni problemi posti dalla necessità di intervenire su una superficie pittorica estremamente ampia ( circa 5.000 mq), articolata, disomogenea sotto l'aspetto conservativo, incredibilmente stratificata.
Quanto al primo problema fu allora messa a punto una struttura operativa di cantiere di estrema efficacia anche didattica rimasta a tutt’oggi insuperata, mentre sotto l’aspetto più strettamente metodologico ( e in relazione al discorso che qui ci interessa) ci si pose forse per la prima volta il problema di restituire all’immagine complessiva della decorazione della Basilica Superiore la maggiore omogeneità possibile pur senza respingere preventivamente le soluzioni adottate nei precedenti restauri – se non in presenza di esigenze conservative o in casi di macroscopica incompatibilità con la situazione generale.
Il rispetto della stratificazione dell’opera anche quando si è in presenza di interventi ritenuti tradizionalmente di scarsa significatività (le cosiddette “integrazioni a neutro”) costituisce la vera novità di fronte alla prassi allora e in seguito prevalente di rimuovere quegli interventi per dare alla decorazione pittorica un aspetto omogeneo garantito dal trattamento ex novo delle lacune.
Per fortuna simili problemi non si sono posti in seguito al sisma del 26 settembre ’97: le decorazioni alle pareti infatti non hanno riportato danni rilevanti e le lesioni nella volta, assai lunghe e ramificate ma poco estese, non hanno neppure esse comportato grossi problemi di reintegrazione.
I problemi invece si pongono e, per quello che si è detto fin qua, non si possono non porre quando ad essere presi in considerazione sono i casi di reintegrazione delle lacune in dipinti murali ridotti in frammenti e spesso in frammenti assai piccoli.
Certo è vero che anche in questo caso i precedenti non mancano ed anzi ce ne sono due di grande notorietà, gli affreschi di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta in S. Maria della Verità a Viterbo e quelli di Andrea Mantegna e soci nella Cappella Ovetari agli Eremitani di Padova.
Essi rappresentano certamente due incunaboli preziosi anche per la storia più generale del restauro dato che proprio in essi fu messo a punto da Brandi neodirettore dell’Istituto il nuovo e tuttora ben funzionante metodo di reintegrazione delle lacune, il cosiddetto “rigatino”, che ormai rappresenta come un marchio di qualità del restauro italiano e di cui non si finisce mai di apprezzare la genialità per la soluzione di un problema apparentemente irresolvibile, quello di reintegrare anche fisicamente l’immagine senza però costituire un falso stante la facile distinguibilità dell’intervento almeno a distanza ravvicinata.
E’ altrettanto vero però che nel mezzo secolo abbondante trascorso da allora anche sotto questo aspetto la situazione è andata mutando ed altre metodologie si sono andate sperimentando. Metodologie non alternative, perché rispondenti allo stesso criterio, ma equivalenti e spesso perfettamente complementari (intendo ovviamente riferirmi a tutti quei sistemi in cui l’immagine non viene in nessun modo fisicamente ricostituita ma si cerca di farla emergere per contrasto ricorrendo a limitatissimi “sussidi” ottico-cromatici).
Sicchè sarebbe ancor meno giustificabile non tenerne conto nella scelta della soluzione migliore da dare alla reintegrazione delle lacune nelle figure dei Santi dell’arcone, cioè immagini che nascono per essere viste all’altezza di 22 metri, con quella curvatura, con quella luce, in quel contesto figurativo, caratterizzato dalle condizioni di lacunosità in cui è giunto fino a noi.
Ma quali che siano le opzioni che verranno fuori dal dibattito non si potrà non tenere nel massimo conto le ragioni dell’autenticità, a salvaguardare la quale peraltro sono state dirette tutte le operazioni effettuate sui frammenti.
Confesso infatti di non trovarmi d’accordo con quanti ritengono di potere individuare nei procedimenti di sostituzione dei materiali costitutivi del manufatto in uso presso popoli di cultura diversa dalla nostra (europea voglio dire e , più in generale, occidentale) un modo alternativo e pertanto da potere contrapporre al nostro modo di concepire e di fare il restauro.
E non mi trovo d’accordo perché ci si trova di fronte a fenomeni completamente diversi e pertanto non confrontabili, dato che nell’un caso si tratta di mantenere efficiente un dato manufatto che deve essere sempre identico a se stesso e nel quale pertanto non si devono cercare i segni di una stratificazione storica - che non possono esserci - né tracce di una originarietà dei materiali costitutivi che anch’esse non potranno mai esserci.
E quand’anche si volesse dare al nostro concetto di restauro il significato molto limitativo di ri-pristino, anche in tal caso non si potrebbe fare nessun paragone perché un oggetto che viene continuamente rifatto non può essere riportato allo “stato primitivo”.
La sessione relativa al progetto di riassemblaggio dei frammenti della vela di S. Matteo di Cimabue potrebbe sembrare completamente estranea al percorso tematico che si è cercato di delineare nelle righe precedenti, ma lo è solo in parte dato che una delle motivazioni principali che hanno spinto chi vi parla a proporre al ministro pro tempore, venuto in visita al cantiere nel novembre del ’97, di tentare la strada della informatica, risiede proprio nella esigenza di maneggiare il meno possibile quei frammenti già così duramente provati dal sisma per non arrecare ad essi involontario detrimento. Vero è che lo scopo principale – e la novità - del progetto stanno nel tentativo di operare per via virtuale e in maniera almeno parzialmente automatica il riconoscimento e il riaccostamento delle immagini dei frammenti in modo da potere poi prendere e collocare a colpo sicuro i frammenti reali.
Una illustrazione dei primi, incoraggianti risultati del progetto è stata fatta un anno fa sempre ad Assisi: ora si intende riferire come si è andati avanti rispetto a quel livello continuando ad operare in maniera concretamente interdisciplinare (il gruppo di
lavoro vede al suo interno storici dell’arte, restauratori, informatici, fisici, elaboratori di immagine, architetti, disegnatori, fotografi etc.).
Per la verità anche questa sessione era stata pensata come occasione di confronto fra esperienze analoghe: ma non è stato possibile ottenere la partecipazione dei responsabili della sola altra esperienza di questo tipo di cui si è a conoscenza, il riassemblaggio mediante computer dei frammenti di affreschi della Cappella Ovetari Come si potrà constatare scorrendo il programma del convegno si è voluto dare alle singole sessioni un taglio monotematico con conseguente andamento dialogico – fatta eccezione per l’unica sessione a carattere storico.
Uno sviluppo ed una articolazione dei più promettenti dei nuclei tematici ora trattati nelle prossime edizioni del Convegno costituirebbe un sicuro segno di vitalità di questa iniziativa.