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Giotto e la Cappella degli Scrovegni

Inserito in Scritti

di Giuseppe Basile

Il motivo fondamentale che mosse Enrico Scrovegni a erigere la Cappella, si ritiene consistesse nella volontà di riscattare l'anima del padre Reginaldo dalle pene ultraterrene cui sarebbe stato destinato in quanto notoriamente usuraio, e, nello stesso tempo, allontanare da se stesso il rischio di andare incontro alla medesima sorte essendosi anch'egli macchiato di quel 'vizio'. Se ne ha conferma nella scena della dedica della Cappella alla Vergine: il gesto aveva appunto il significato di restituire simbolicamente quanto era stato lucrato mediante l'usura, condizione posta dalla Chiesa per rimettere quel peccato. Altre conferme si possono trovare nella presenza notevolissima di usurai nelle scene dell'Inferno, nel Giuda impiccato che fronteggia il Giuda che riceve la borsa dei trenta denari, nella figura allegorica dell'lnvidia. Tornando alla scena della dedicazione, Enrico veste il viola (colore della penitenza), ma si fa collocare nel settore destinato ai beati, sotto l'immagine protettrice della croce;

Fin dall'inizio, però, Enrico dovette avere un'altra intenzione, più 'privata' e pertanto meno edificante, ma in compenso più ' utilitaria': adibire il nuovo edificio a capella funeraria, come sembra si possa desumere dalla copertura a botte simulante un cielo stellato, singolarmente vicina ai monumenti sepolcrali paleocristiani di Ravenna. vi furono seppelliti in seguito non solo la moglie, ma anche due nipoti.Tuttavia la dimensione 'pubblica' era forse preponderante fin dall'origine rispetto a quella 'privata' e finì col prevalere.

Tale duplicità di aspetti sembra trovare del resto rispondenze nella suddivisione dello spazio cultuale della cappella, la cui parte anteriore, fino ai due altari laterali, era destinata ai fedeli e l'altra, più ridotta, tra gli altari e l'arco trionfale, alla famiglia dello Scrovegni. Alla prima si accedeva dalla pubblica via, tramite la porta grande in facciata, all'altra mediante una porta più piccola sita all'estremità della parete settentrionale, che serviva a mettere in comunicazione il palazzo con la cappella.

Esistono altre ipotesi sulle origini e sulle motivazioni della costruzione della Cappella degli Scrovegni, il bisogno estremo di Enrico di suggellare con una sequenza visibile e clamorosa di atti pubblici il raggiunto stato magnatizio, così, acquista da Manfredo Dalesmanini l’intera Arena. 

Con la Cappella dell'Arena Enrico Scrovegni vedeva finalmente realizzato il sogno di veder riconosciuta la sua eminenza sociale, priva di qualunque traccia di infamia usuraia.
Ci voleva un pittore di grido, anzi il migliore in assoluto, qualunque fosse la spesa da sostenere. A opera compiuta, ciascuno poteva ammirare stupefatto come Giotto narrava il dramma umano della perdizione e l'annuncio della salvezza grazie al sacrificio di Cristo.

Non sono molti i dati documentari finora reperiti sulla Cappella. È noto l'atto di acquisto (6 febbraio 1300) del terreno, comprendente i resti dell'antica arena romana, su cui venne edificata. Da un documento del l° marzo 1304, un'indulgenza concessa da papa Benedetto XI ai fedeli che avessero visitato la chiesa della Beata Maria Vergine della Carità dell'Arena, si può ragionevolmente desumere che a quella data la Cappella fosse agibile a fini di culto e che pertanto doveva essere stata ultimata almeno nelle sue strutture murarie.

inoltre che il 16 marzo 1305 il Maggior Consiglio di Venezia concesse in prestito a Enrico Scrovegni dei "panni", forse arazzi o altri paramenti sacri, provenienti dalla basilica di San Marco per la consacrazione di "una sua cappella a Padova".

Nel 1300 quindi, anno del primo Giubileo, fu posta la prima pietra della Cappella, per adornare l’edificio Enrico chiamò due tra i più grandi artisti del tempo: Giovanni Pisano a cui commissionò tre statue d’altare raffiguranti la Madonna col Bambino tra due diaconi, e Giotto a cui affidò la decorazione pittorica dell’intera superficie muraria. Giotto era un artista già celebre: aveva lavorato, tra l’altro, per il papa nella Basilica di San Francesco in Assisi e in San Giovanni in Laterano a Roma, a Padova nella Basilica di S. Antonio e nel Palazzo Comunale, detto della “Ragione”.

L’opera fu ultimata in tempi molto brevi tanto che nel 1305, dopo solo due anni di lavoro, la Cappella era tutta decorata. Giotto immaginò una struttura architettonica in finti marmi dipinti che sorregge una volta dall’aspetto di cielo stellato e i riquadri con la storie della Vergine e di Cristo.

La suddivisione dello spazio stellato della volta in due campi perfettamente uguali, in ognuno dei quali brillano come astri di inusitata grandezza la Vergine, madre e regina, (nel campo vicino all'ingresso), e Cristo Benedicente, rende immediatamente
il senso del ruolo attribuito in quella chiesa alla Madonna che, intermediaria nei confronti del Figlio e tramite pertanto della Salvezza, è la vera protagonista del ciclo. Un significato confermato dallo sviluppo eccezionale, almeno nell'ambito della pittura monumentale d'Occidente, delle scene che ne narrano le vicende prima e dopo la nascita, occupanti l'intero registro superiore e gran parte della parete dell'arco trionfale, nonché la sua reiterata presenza sulla controfacciata, in atto di ricevere la Cappella dal peccatore pentito o di guidare le schiere dei beati verso la ricompensa eterna. Tale intenzione si dichiarava d'impatto al visitatore che entrava nella Cappella, il quale era subito attratto dalla rappresentazione dell'Annunciazione sull'arco trionfale, di dimensioni inusuali per l'inserimento dell'episodio (rarissimo) della Missione dell'annuncio a Maria.
La rappresentazione del Giudizio Universale sulla parete di fronte mette istantaneamente in rapporto l'inizio e la fine della vicenda principe nell'esperienza di ogni buon cristiano: la salvazione.

Poiché i misteri legati alla salvazione richiedono una raccolta meditazione, Giotto impone un percorso mentale che è anche movimento fisico, disponendo gli episodi della vita della Vergine e di Cristo in una sequenza narrativa tale che il riguardante è sollecitato ad andare su e giù per ben tre volte prima di arrestare lo sguardo dinanzi all'altare. Da qui, per decidere del proprio comportamento, al visitatore non resta che considerare i percorsi alternativi configurati nelle due pareti dalla sequenza dei sette Vizi e delle sette Virtù: i primi, sulla parete settentrionale, conducono - con un crescendo che culmina nello Disperazione penzolante impiccata - all'Inferno; le altre, culminanti nelIa Speranza levata in volo, terminano nella zona destinata ai beati.

Vizi e Virtù si corrispondono dalle due pareti secondo il criterio dell'abbinamento dei contrari, lo stesso che è possibile riscontrare in altre zone deIIa Cappella, la più nota delle quali è quella che ospita, nella parete nord, dieci piccole scene tratte dal Vecchio Testamento che istituiscono con le contigue Storie di Cristo rapporti di 'prefigurazione'.

(Nota per il montaggio: a questo punto si mostrano alcuni esempi di abbinamento di contrari.)


La figura umana è l'elemento predominante anche quantitativamente. I corpi, ed in particolare i volti, vengono presentati in tutti i modi possibili: di profilo, di fronte, di spalle, di tre quarti, dall'alto in basso e viceversa. La reintroduzione del profilo nella rappresentazione del corpo umano dopo secoli di presentazione di un corpo frontale con testa girata ad indicare che si intende raffigurare una figura di profilo, è stata a ragione giudicata come una delle più importanti conquiste di Giotto: tra gli esempi più sintomatici, quello del Giuda del Tradimento ed il ritratto del committente, un'altra " invenzione" di Giotto. L’artista, poi, si serve sistematicamente e diffusamente di motivi ricorrenti anche per caratterizzare un dato personaggio in maniera inequivocabile. Si tratta dei colori impiegati nei panneggi che aspirano anche ad evidenziare il carattere del personaggio che li indossa ( tipico il caso di Giuda dal profilo camuso di giudeo e dal manto giallo, colore del tradimento) e dei 'tipi facciali', che definiscono non mere fisionomie ma viventi, seppur tipici, caratteri. È interessante al riguardo il procedimento impiegato da Giotto nel far assumere a più di un personaggio in momenti successivi lo stesso 'tipo facciale': è il caso, per esempio, di Giuseppe che assume il volto di Gioacchino quando questo non compare più, per poi cederlo a Pietro.

L'articolato programma dei significati iconologici e dei contenuti iconografici del ciclo è basato su conoscenze e suggestioni svariate. Le fonti più usate per le Storie di Gioacchino, della Vergine e del Cristo sono state individuate nei Vangeli Apocrifi, come pure nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze. Quanto alle allegorie dei Vizi e delle Virtù, recenti studi hanno attirato l'interesse su diverse fonti letterarie alle quali l'artista o il suo consigliere avrebbero potuto ispirarsi. Non c'è dubbio che questo programma sia opera di un dotto, la cui identità si tenderebbe a ravvisare da parte di alcuni studiosi nel personaggio, finora ignoto, raffigurato nel Giudizio universale in atto di sostenere la Cappella che Enrico offre alla Vergine. Il presunto 'consigliere' teologico e, più in generale, culturale indossa una cotta bianca e un superpeliceum azzurro.

L' importanza della sequenza di esecuzione quando si tratta di dipinti su muro e, in particolare, eseguiti a fresco è ben nota.
L'affresco presenta, infatti, caratteristiche ed esigenze che altri tipi di pittura non hanno: richiede un intonaco steso fresco e utilizzabile solo fino ad un certo grado di asciugamento, per cui non se ne può stendere ogni giorno più di quella estensione che si prevede di poter dipingere e che varierà pertanto non solo in relazione alla complessità dell'immagine da rappresentare ed alla bravura dell'artista, ma anche in base alle diversità climatiche stagionali oltre che ambientali. obbliga a procedere dall'alto verso il basso e di solito, ma solo per comodità, da sinistra a destra.

Che l'impegno di Giotto a rinnovare la tradizione bizantina superandola fosse programmatico e totale lo dimostra il modo in cui si pone dinanzi ai problemi dello specifico operare pittorico. Nel ciclo padovano viene definitivamente caratterizzato il nuovo cantiere di decorazione murale, sia sotto l'aspetto organizzativo che dei procedimenti tecnici specifici.  E' noto che già nel grande cantiere di Assisi la tecnica di pittura a fresco, basata sull'impiego di "giornate", aveva definitivamente soppiantato, a partire dalle Storie di Isacco, quella a secco che procedeva per "pontate". Il nuovo procedimento aveva comportato l'abbandono dei tradizionali, rigidi schemi grafici, elaborati nel corso di secoli. Al maestro toccava l'onere di inventare le immagini disegnandole, mentre per la messa in opera sul muro egli si serviva di solito di aiutanti, a vari livelli di specializzazione, in funzione dell'esperienza accumulata da ciascuno di loro, non c'è punto, in tutto il ciclo, in cui non si avverta la presenza del maestro (anche se non sempre si riscontra la sua mano), il che presuppone una organizzazione razionalmente gerarchica del cantiere.

Giotto realizza così a Padova uno dei massimi capolavori della pittura europea, con una sicurezza, in tutto il ciclo è possibile reperire solo pochissimi pentimenti,  ed una rapidità anch'esse straordinarie.

La grandezza e la forza dell’arte di Giotto sono  state riconosciute sin dall’inizio, e l’influenza della sua pittura innovativa continuò ad agire non solo per l’intero Trecento ma anche nei secoli successivi.

 “Credette Cimabue nella pintura tener lo campo. Ed ora ha Giotto il grido, si che la fama di colui è oscura.”

 

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