Sulla conservazione ed il restauro del Grande Cretto di Alberto Burri a Gibellina: il problema metodologico
In occasione delle iniziative culturali per il centenario della nascita di Cesare Brandi, che hanno avuto luogo nei 2 anni appena trascorsi sia in Italia che all’estero, è risultato che l’elemento di maggiore attualità del suo pensiero sul restauro e della conseguente prassi operativa viene riconosciuto nella attenzione specifica riservata alla preventiva conoscenza dell’opera nelle sue caratteristiche irripetibili sia a livello fisico-materico che formale.
La constatazione potrebbe suscitare qualche perplessità tra i cosiddetti “non addetti ai lavori”: chi è del mestiere, invece, sa bene che, fino a non molti anni fa, la prassi più tradizionale prevedeva un trattamento indifferenziato, tipico della classe di manufatti cui l’opera apparteneva.
Così i dipinti su tela venivano invariabilmente rintelati, quelli su tavola “parchettati”, i dipinti murali consolidati mediante malte di varia composizione, i mosaici strappati e applicati su supporto mobile e via.
Mancava insomma, o comunque era assai poco sviluppata, la coscienza della “unicità” dell’opera, anche se la si fosse voluta considerare soltanto sotto l’aspetto fisico, cioè come puro manufatto materico.
E’ evidente, infatti, che difficilmente due manufatti possono avere subito identici processi di degrado e di danno, anche nel caso in cui si tratti di prodotti dello stesso autore e dello stesso periodo.
Ma a questo aspetto Brandi ne aggiungeva un altro, certamente più caratterizzante in quanto afferente a ciò che di più irriproducibile presenta un’opera, cioè la sua individualità in quanto opera d’arte.
Solo quando di un’opera sono ben noti sia gli aspetti materici che quelli “formali”, ricorrendo a tutti gli strumenti utili allo scopo ( ricerche storiche, indagini scientifiche, confronti tra esperti, etc.), sarà possibile fare un progetto di massima, che andrà verificato attraverso un “cantiere di progetto” in modo da arrivare al progetto esecutivo vero e proprio senza dovere temere quegli imprevisti che in corso d’opera spesso fanno saltare tempi e costi (non a caso le varianti alle perizie hanno costituito fino a non molti anni fa lo strumento più diffuso per fare lievitare i costi oltre ogni prevedibilità).
Se tutto questo è vero per quelle opere, di qualsiasi tipologia, che chiamerò, per brevità, “pre-contemporanee”, a maggior ragione deve esserlo per le opere realmente (e cioè non solo cronologicamente) contemporanee, rispetto alle quali è perfino troppo nota la difficoltà estrema, se non la impossibilità, di accorpamenti classificatori che investano l’opera nel suo insieme, a meno che non si voglia prendere in considerazione, pur nella sua estrema labilità, il riferimento ad una “poetica”, ad un manifesto o a quant’altro di simile.
Del resto, in linea di massima, il riferimento ad una posizione teorica o di intenzioni non coinvolge l’aspetto materico , che infatti si presenta generalmente nelle forme più svariate e imprevedibili.
Né le opere di Burri fanno eccezione: anzi ( e non dico certamente nulla di nuovo) se c’è, in Italia, un artista per il quale la matericità dell’opera costituisce elemento fortemente caratterizzante questo è proprio lui.
Sarebbe però un errore imperdonabile volerne dedurre che, di conseguenza, l’intervento su un’opera di Burri si possa ridurre alla messa a punto di tecniche conservative idonee a risolvere i problemi posti dai materiali costitutivi, considerati sia singolarmente che nell’assemblaggio voluto dall’artista e, ovviamente, nella loro interazione con l’ambiente.
Inutile dire che tutto questo va fatto e nel modo più efficace, cioè tale che se ne possano trarre i migliori risultati possibili: a cominciare dalla identificazione non empirica dei materiali, dei procedimenti tecnici cui erano stati sottoposti, delle cause e dei fenomeni di degrado.
Ricorrendo pertanto agli esami scientifici ma anche alle informazioni deducibili sia da documenti scritti e figurativi che, in assenza di questi (o comunque in aggiunta ad essi ai fini di una conferma), da testimonianze orali di quanti possano essere stato coinvolti, sotto diversi aspetti, nella fase progettuale e operativa iniziale nonché in quelle successive.
Poter disporre di informazioni attendibili sulla storia conservativa di una data opera, poterle “incrociare” con i risultati delle indagini scientifiche, sia sotto l’aspetto conoscitivo che diagnostico, è indispensabile in ogni intervento conservativo , ma diventa vitale quando si tratta di prodotti artistici contemporanei perché, come si è già detto, quasi mai è possibile procedere in maniera analogica come pure è possibile fare, entro certi limiti, quando si ha a che fare con prodotti rispondenti a prassi operative consolidate e diffuse se non altro perché afferenti a pratiche artigianali ben precise (del pittore, dello scultore, del mosaicista, ma anche del doratore, del fonditore, dello scalpellino, del muratore, etc.).
Per fortuna nel caso del Grande Cretto si tratta (almeno da quello che se ne sa finora: ma sono in corso analisi scientifiche finalizzate sia alla caratterizzazione dei materiali che alla individuazione degli agenti e delle forme di degrado) di materiali tradizionali antichi ( le macerie della antica cittadina) o comunque di uso corrente (il cemento, il ferro e gli altri materiali impiegati per ricoprire le macerie).
Certo le modalità dell’assemblaggio, tese ad ottenere particolari effetti espressivi, non potranno che rendere più difficoltosa la messa in opera degli inteventi conservativi, e ,d’altra parte, questo fa diventare ancora più cogente l’esigenza di procedere per gradi, cominciando con la messa in opera di un “cantiere di progetto”, nel corso del quale sia i problemi conservativi che quelli formali possano essere messi a fuoco e valutati alla luce di concreti risultati operativi, meglio se di tipo differenziato.
Va da sé che a monte di tutto debba esserci la volontà di privilegiare una opzione realmente di restauro e quindi di attenersi alle seguenti linee-guida: interventi puntuali di conservazione sulla struttura dell’opera; rimozione degli elementi di degrado e di alterazione cromatica delle superfici, con eventuali interventi localizzati di riequilibrio tonale, in particolare tenendo conto della colossale estensione della superficie e pertanto dell’impatto visivo cui essa dà luogo.
Quanto al problema del completamento dell’opera secondo le intenzioni ed il progetto dell’autore, non pare allo scrivente che si oppongano problemi di principio, dato che si è trattato di una interruzione del tutto accidentale e che buona parte dell’impresa complessiva della costruzione della nuova Gibellina, di cui il Grande Cretto fa parte a tutti gli effetti, è ancora in corso (dal cd “teatro” di Pietro Consagra al “sistema delle piazze”, per fare gli esempi forse più significativi): ma la soluzione non può essere automatica a causa della macroscopica modifica morfologica del terreno destinato ad accogliere la parte non realizzata che nel frattempo si sarebbe verificata ( superfluo ricordare come anche in questo caso sarebbe necessario seguire lo stesso percorso, mettendo pertanto in opera un apposito “cantiere di progetto”).