Cenacolo - astrazione a Milano
Linea 2, verde, fermata Ferrovie Nord: poi 2 brevi tratti di strada, un pezzetto di piazza – in tutto meno di 5 minuti- e mi ritrovo all’ingresso del chiostro della sacrestia del Convento di S. Maria delle Grazie.
Basta superare quel piccolo varco rettangolare per lasciarsi alle spalle tutto ciò che mette a dura prova la nostra salute fisica e mentale, il traffico, il rumore, lo smog, l’affanno.
Linea 2, verde, fermata Ferrovie Nord: poi 2 brevi tratti di strada, un pezzetto di piazza – in tutto meno di 5 minuti- e mi ritrovo all’ingresso del chiostro della sacrestia del Convento di S. Maria delle Grazie.
Basta superare quel piccolo varco rettangolare per lasciarsi alle spalle tutto ciò che mette a dura prova la nostra salute fisica e mentale, il traffico, il rumore, lo smog, l’affanno.
Confesso che la prima volta si era trattato di un banale espediente per risolvere un piccolo inconveniente: all’improvviso si era messo a diluviare e avevo infilato di corsa quasi senza accorgermene quella porta sicuro di trovarvi riparo. Poi però avevo continuato a seguire quell’itinerario alla luce di due considerazioni principali: l’esperienza della “scoperta” della tribuna bramantesca nella sua imponenza maestosa e la considerazione che quell’itinerario anomalo poteva servire, in qualche modo, a farmi recuperare il senso di un contesto funzionale irrimediabilmente perduto da quando il Refettorio del Convento domenicano di S. Maria delle Grazie era diventato parte a se stante, soprattutto per la presenza dell’Ultima Cena.
Certo divenendo monumento nazionale non era la pura e semplice proprietà giuridica a cambiare connotati e neppure soltanto l’originaria funzione d’uso ( mutamento peraltro necessario, tanto più che proprio l’utilizzazione impropria del locale retrostante alla parete dell’Ultima Cena da parte dei frati era stata individuata come una delle cause del deterioramento accelerato del dipinto): la musealizzazione, in questo forse più che in altri casi, aveva significato per il Refettorio una resecazione radicale da tutto ciò che gli era attorno, in senso fisico ma anche in senso psicologico.
Inutile dire quanto abbia pesato il fatto che si trattava di un’opera di Leonardo, anzi dell’opera più impegnativa tra quelle pervenute fino a noi e per giunta l’unica prova sopravvissuta della sua capacità di dipingere su muro impiegando tecniche ben lontane dalla solida tradizione toscana del “buon fresco”.
L’opera, com’è noto, divenne subito celeberrima e costituì, sia per il modo assolutamente nuovo di trattare il soggetto che sotto l’aspetto formale, un punto di riferimento ineludibile per tutta la pittura europea, fino ai nostri giorni.
Per la verità – come ha dimostrato la recente mostra sulla “fortuna” del Cenacolo nei secoli (Il Genio e le passioni) – l’influenza o almeno il riflesso dell’opera va ben oltre l’ambito della pittura o comunque delle arti figurative, anzi è proprio la letteratura che, nell’Ottocento, la trasforma definitivamente in un mito.
C’è però un altro aspetto, piuttosto raro, che ha finito per contribuire potentemente all’alone di eccezionalità che promana dal dipinto, la sua profonda vulnerabilità.
Già pochi anni dopo la scopertura l’opera viene descritta come visibilmente deteriorata e in seguito non c’è visitatore che non noti i segni o quanto meno i sintomi di una inarrestabile decadenza.
Che nel corso della sua storia abbia avuto ogni genere di traversie è del resto noto a tutti: dai primi maldestri tentativi di restauro di cui si ha notizia certa, nel ‘700, all’acquartieramento delle truppe napoleoniche e poi ancora non pochi altri empirici interventi di restauro, in realtà tentativi più o meno riusciti di rifacimento.
Ma l’idea della ineluttabilità della sua fine si era fatta, alla fine dell’’800, sempre più incombente da quando l’opera era stata presa a simbolo della caducità di ogni prodotto della creatività umana, sebbene si trattasse della massima espressione di tale creatività, l’”arte”, ed anche se si aveva a che fare con un grandissimo genio, certo uno dei più grandi mai esistiti, di contro alla sempre risorgente vitalità della “natura”.
Per fortuna, pensavo, mentre D’Annunzio dava espressione a questa posizione scrivendo l’Ode per la morte di un capolavoro qualcun altro si dava da fare, in maniera meno alata forse ma con risultati complessivamente più apprezzabili, per garantire a quella povera reliquia una qualche speranza di sopravvivenza.
Così nei primi decenni del secolo XX, nell’arco di poco più di un trentennio, l’opera fu sottoposta a ben tre interventi di restauro, tutto sommato abbastanza accettabili tenuto conto di come veniva inteso allora il restauro e dei mezzi tecnici di cui si poteva disporre, tanto più che due di essi, il primo e l’ultimo, erano stati affidati ai due più importanti restauratori italiani del momento, Luigi Cavenaghi e Mauro Pelliccioli.
Ma doveva essere la stupidità o meglio la follia umana a dare l’ultima, irreversibile spinta alla feticizzazione dell’opera, coinvolgendola in quell’inaudito itinerario di morte che fu la Seconda Guerra Mondiale.
Infatti, l’essere sfuggita miracolosamente alla distruzione di gran parte del convento e dello stesso Refettorio e poi sopravvissuta alle condizioni proibitive cui fu abbandonata per mesi prima che fosse possibile mettere in opera anche il più rudimentale intervento di protezione, poteva apparire quasi come una conferma alla tradizionale convinzione sulla immortalità della creazione del genio, e ciò non poteva che restituire all’opera il secolare impatto simbolico, se mai intensificato.
Il dipinto continuava così a giganteggiare sempre più sulle proprie disgrazie ma proprio per questo fu avvertito più vivo che mai il bisogno di sorreggerlo e aiutarlo a curare le piaghe brucianti delle vicissitudini più recenti, quelle che lo avevano raggiunto nel più profondo della propria fisicità.
Ancora una volta dunque l’opera venne fatta oggetto di cure , stavolta rivolte soprattutto , come era necessario, alla sua consistenza fisica ed alla idoneità dell’ambiente (le condizioni del microclima, la sanità dell’edificio con il quale doveva intrattenere obbligati rapporti quotidiani) ed ancora una volta si scatenarono le polemiche.
C’era infatti chi considerava l’Ultima Cena, ora più che mai, “intoccabile” e chi invece riteneva che fosse finalmente venuto il momento di verificare quanto del “vero Leonardo” fosse rimasto dopo manomissioni plurisecolari e i danni antichi e recenti.
A dare forza a questa seconda opzione convergevano la fiducia (poi rivelatasi non sempre fondata) sulle capacità illimitate delle nuove tecnologie di intervento e l’attenzione spiccatissima a privilegiare la reale autenticità dell’opera d’arte, propugnata e diffusa da Cesare Brandi soprattutto attraverso l’attività dell’Istituto Centrale del Restauro, da lui fondato e diretto per un ventennio (1939 – 1960).
Per la verità, l’approccio di Brandi al restauro, basato com’era su una rigorosa disanima dei caratteri materici e degli aspetti formali di un’opera, era tutt’altro che in sintonia con l’approccio al dipinto leonardesco di cui si è detto.
Ridotta in soldoni, infatti, la questione era la seguente: è possibile “restaurare” un feticcio?
Cioè è possibile restituire l’originaria unità potenziale ad un’opera che era diventata simbolo di se stessa, e che pertanto valeva più per quello che rappresentava che per quello che era – essendo venuta a cessare da tempo immemorabile la possibilità di individuarne concretamente i caratteri costitutivi?
E in realtà più che di un restauro nel senso proprio della parola non poteva che trattarsi di un rito magico-religioso, un itinerario mistico “alla ricerca del vero Leonardo”, il cui scopo finale era – e non poteva non essere – la ostensione alla venerazione di reliquie di autentica pittura sottratte con inenarrabile sforzo alla mistificazione operata nel corso dei secoli.
In quanto attività di “rivelazione” di brandelli del sacro l’operazione aveva bisogno di una mediazione rigorosamente individuale, direi “profetica” e pertanto non fungibile, se mai ai limiti della identificazione surrogatoria.
Venuta a mancare la dimensione più propria del fare restauro, quella interdisciplinare e conseguentemente sociale, restava solo la possibilità di avviare con l’opera di Leonardo una comunicazione personale, destinata tutt’al più ad arricchire la propria esperienza esistenziale.
Una tale opportunità, peraltro, non poteva che essere concessa a pochi, e questo può servire a capire il disagio, anzi lo sconcerto, di un pubblico “escluso” di fronte ad una realtà che si andava dipanando dinanzi ai suoi occhi in forme poco comprensibili (rendendo peraltro inutile, se non controproducente, l’esperienza del “cantiere aperto” voluto dai primi responsabili dell’operazione), e in ogni caso ambiguamente in bilico tra presentazione pura e semplice dei brani di pittura recuperati e tentativo di ripristinare una lettura “autentica” dell’opera alla luce delle copie ancora reperibili dell’Ultima Cena.
Ciò del resto potrebbe servire a dare, almeno parzialmente, ragione della durata straordinariamente lunga di un intervento che avrebbe potuto non aver mai fine ma può anche essere utile a spiegare la sostanziale carenza di informazioni sul progredire delle operazioni, con la conseguenza di violentissime polemiche generalmente prive di fondamento ma spie inequivocabili della anomalia del caso.
Non tutte quelle polemiche erano infatti pretestuose, come invece lo sono la maggior parte di quelle sistematicamente scatenate per quasi tutti i più importanti restauri italiani (compreso quello dell’Ultima Cena) da uno scaltro e non disinteressato lestofante straniero che soltanto a causa del provincialismo esterodipendente di chi avrebbe il dovere di rintuzzarlo continua ad operare imperterrito, come se fosse difficile capire qual è la posta in gioco, per le sorti del restauro italiano, dietro alle ricorrenti accuse tese ad accreditare la convinzione che tutte le grandi opere d’arte del nostro Paese vengono inesorabilmente rovinate quando sono sottoposte a restauro.
Non appariva allora (e meno che mai appare oggi) difendibile l’inversione cronologica tra il risanamento dell’ambiente e l’intervento diretto sull’opera che per tutto il primo decennio ha caratterizzato “l’operazione Cenacolo” – che, per capirsi, sarebbe come imbottire di antibiotici un malato gravissimo di polmonite ma lasciandolo all’addiaccio.
Fare uscire il Cenacolo da questa situazione di insostenibile rischio mi era apparso allora come il modo migliore per assolvere al mio compito di “inviato speciale” per la salvezza di quell’opera ma, nello stesso tempo, come lo strumento più efficace per il mio personale itinerario di approccio al manufatto vinciano: farlo vivere il più a lungo possibile, sostenerlo nella sua pretesa di rimanere “abbarbicato all’eternità” mi avrebbe certamente facilitato nell’impresa di soddisfare alcune mie curiosità – Leonardo era uomo d’onore ...
Mi incuriosiva, per esempio, non poco la scoperta che il punto di stazione di chi guardava l’Ultima Cena non era all’altezza del pavimento del Refettorio ma di quello del dipinto: una soluzione già adottata, per esempio, da Giotto nella Cappella Scrovegni anche se, indubbiamente, con altra intenzionalità.
Quella situazione si sarebbe potuto riprodurla utilizzando l’elevatore elettrico con piattaforma destinato al controllo e alla manutenzione del dipinto: ma cosa aveva a che fare ciò con le macchine volanti immaginate da Leonardo per consentire ai frati domenicani di partecipare all’evento rappresentato nel dipinto?
Giuseppe Basile