Caratteri specifici dell’intervento di restauro del Cenacolo
Quando, agli inizi di questo secolo, Gabriele D’Annunzio pubblica l’Ode in morte di un capolavoro si riallaccia ad una tradizione letteraria ormai plurisecolare.
Non esiste, per quanto mi risulta, nessun’altra opera di grande rilievo per la quale sia documentata una così precoce constatazione del degrado, tanto da aver fatto dire a Renzo Zorzi, parafrasando Leonardo, che il dipinto cominciò a morire quasi ancor prima di cominciare a vivere.
Quando, agli inizi di questo secolo, Gabriele D’Annunzio pubblica l’Ode in morte di un capolavoro si riallaccia ad una tradizione letteraria ormai plurisecolare.
Non esiste, per quanto mi risulta, nessun’altra opera di grande rilievo per la quale sia documentata una così precoce constatazione del degrado, tanto da aver fatto dire a Renzo Zorzi, parafrasando Leonardo, che il dipinto cominciò a morire quasi ancor prima di cominciare a vivere. Certo, come è necessario di fronte ad ogni tipo di documento storico, ci si può e ci si deve interrogare sul grado di attendibilità oggettiva e soggettiva della lunga serie di testimonianze che sono state reperite e pubblicate: intendo dire che non si può dare per scontato che tutti coloro che hanno riferito del deterioramento dell’opera fossero realmente in grado di capirne la gravità e che, d’altra parte, si può verosimilmente sospettare che alcuni osservatori che pur disponevano di adeguati strumenti di giudizio fossero portati ad estremizzare le loro impressioni in base a considerazioni e scopi del tutto estranei ad esigenze di corretta testimonianza.
Esempi di quest’ultimo tipo di comportamento non mancano e mi limiterò a citarne uno in cui mi sono imbattuto di recente: l’invettiva di un grande critico d’arte tedesco del principio dell’’800 contro le “sacrileghe mani” di ignoti restauratori locali che avrebbero completamente ridipinto, dopo averlo irrimediabilmente rovinato, il ciclo di Giotto agli Scrovegni. Dato che gli affreschi padovani sono tra le opere in assoluto più immuni da interventi di ridipintura, l’affermazione si può spiegare in due soli modi: un madornale errore di giudizio dovuto ad incompetenza tecnica specifica ovvero un sostegno più o meno cosciente alle trattative che nel frattempo si andavano intrecciando tra i proprietari privati della Cappella e una ben nota società inglese di amatori d’arte per lo stacco e l’alienazione alla stessa della più importante opera di Giotto.
Ovviamente nessuna analoga intenzione può essere sospettata nell’ultimo nostro vate nazionale e sarei portato anche ad escludere che egli non disponesse o, quanto meno, non fosse in grado di procurarsi adeguati elementi di giudizio, vista l’acribia della quale fa sfoggio nel descrivere le condizioni del monumento equestre di Bartolomeo Colleoni a Venezia.
Tanto più che proprio negli stessi anni sull’Ultima Cena stava operando il celebre restauratore Luigi Cavenaghi.
Non è questo il luogo per approfondire il discorso ( l’occasione potrà essere forse il Convegno milanese del prossimo anno sulla Iconografia, storia e fortuna del Cenacolo dal XV al XIX secolo) ma la mia impressione è che proprio in quegli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900 vada prendendo corpo quel processo che, se mi si passa il termine, vorrei chiamare di “feticizzazione” di molti capolavori e in primo luogo della Cena le cui ragioni possono riassumersi schematicamente nel modo seguente.
In primo luogo una certa particolare temperie culturale che per brevità chiamerò decadentista, alla cui costituzione risulta tutt’altro che irrilevante l’apporto della cultura inglese ed anche con specifico riguardo alla figura-mito di Leonardo.
In secondo luogo - e con risultati certo più decisivi per quanto la dinamica seguita sia stata generalmente ben poco lineare - la formazione di categorie di “addetti ai lavori” destinati a sostituirsi a poco a poco alle tradizionali comunità di eruditi “generalisti” ovvero a corporazioni professionali, quelle degli artisti, ritenute non più abilitate a mettere in opera interventi sulle opere d’arte, dato che questi non potevano più essere omologhi rispetto al fare arte.
Mi riferisco ovviamente alla fondazione a livello universitario della nuova disciplina della storia dell’arte ma soprattutto alla utilizzazione degli specialisti in essa formati nelle appena istituite strutture di tutela del nuovo stato unitario; e poi al raggiungimento di una sempre maggiore autonomia da parte della nuova figura del restauratore, almeno da quando il conte Giovanni Secco Suardo ebbe a delinearne, ed in gran parte a concretizzarne personalmente, un profilo la cui complessità e specificità non avrebbe potuto assolutamente adattarsi al ruolo secondario se non marginale che il restauro aveva tradizionalmente goduto nell’attività di un artista.
Naturalmente, nonostante sia trascorso un secolo abbondante, non tutti hanno preso atto dell’affermarsi di tali fenomeni: sicchè può succedere ancora oggi (ma per fortuna sempre più raramente) che artisti svagati o svaporati e intellettuali incorregibilmente presenzialisti diano corso a polemiche generalmente prive di fondamento ma che possono anche avere eco più o meno prolungate se gli autori si trovano a godere di notorietà a livello di mass media.
Mi pare superfluo far rilevare infatti che la divaricazione tra conoscenze degli “addetti ai lavori” e capacità di comprensione dei non addetti è andata sempre più approfondendosi nell’ultimo mezzo secolo e soprattutto da quando la fruizione delle opere d’arte è diventata un fenomeno di massa ma è mancata in parallelo, o è stata quanto meno largamente insufficiente, un’adeguata azione di informazione e sensibilizzazione da parte dei responsabili della tutela.
E ovviamente analoga è la parabola dei mezzi di comunicazione, in un primo tempo utilizzati direttamente da addetti ai lavori particolarmente influenti fin quando il pubblico cui ci si intendeva rivolgere era costituito dagli addetti di quel particolare settore e poi invece esclusivamente dagli specialisti in comunicazione dal momento in cui il pubblico andava allargandosi in dimensioni imprevedibili e divenendo sempre più indifferenziato.
Se si aggiunge che anche nei confronti degli specialisti in comunicazione è mancata o piuttosto non è stata mai seriamente tentata da parte dei responsabili della tutela una attività di sensibilizzazione in modo da garantire un tipo di informazione che senza essere specialistica fosse però corretta ed efficace, allora sarà più chiaro perché l’informazione nel campo del restauro sia generalmente così gracile e stereotipata.
Né l’Ultima Cena poteva fare eccezione: tanto più che, ad accentuarne il carattere di quasi “virtualità”, aveva fortemente contribuito l’epilogo del bombardamento inglese del 16 agosto 1943, che aveva gravemente danneggiato il complesso conventuale di S. Maria delle Grazie e quasi completamente distrutto il Refettorio, ma lasciato in piedi miracolosamente, anche se tutt’altro che indenne, la parete con il dipinto leonardesco .
I danni più gravi però il dipinto ebbe a subirli nel periodo immediatamente successivo al bombardamento quando, continuando la guerra, la parete rimase esposta alle intemperie ed in particolare alla pioggia.
Dovette allora rivelarsi di grande utilità il trattamento messo in opera prima dal Cavenaghi e poi da Oreste Silvestri per fare riaderire la pellicola pittorica alla imprimitura ed alla preparazione sottostanti impiegando resine invece che, come era avvenuto precedentemente, materiali proteici generalmente sensibili all’umidità: tanto che Mauro Pellicioli non trovò soluzione migliore che quella di adeguarsi al metodo impiegato dai suoi predecessori, nonostante ne fossero ormai noti gli inconvenienti.
Si trattava in particolare di due fenomeni: l’alterazione cromatica dei fissativi impiegati ed il progressivo appesantimento degli strati pittorici man mano che venivano imbevuti di quantità sempre più cospicue di prodotti di consolidamento, per di più tendenti a costituire uno strato in qualche modo poco permeabile.
Per la verità il restauratore cercò di risolvere il primo inconveniente ricorrendo all’impiego di un nuovo prodotto, la gommalacca decerata, mentre niente potè fare per evitare il secondo per l’assenza di idonee alternative e d’altra parte non potendo neppure pensare di rischiare la perdita di “scaglie” più o meno estese del dipinto non curandone la riadesione al supporto murario.
Fatto sta che a distanza di 25 anni la situazione era ritornata ad essere quella precedente ai danni della guerra, con l’aggravante di una acquisita predisposizione ad un tipo di umidità abbastanza raro, che Urbani ebbe a definire di condensa interstiziale, avente sede sotto il “crostone” costituito dal complesso pellicola pittorica-consolidanti.
Il segno più appariscente del rinnovato degrado era costituito ovviamente dal viraggio verso un indifferenziato bruno-marrone della superficie pittorica conseguente alla inevitabile alterazione del fissativo: i colori che Pellicioli aveva tirato fuori facendo gridare al miracolo erano di nuovo spenti e l’impressione dominante era quella di un enorme monocromo sordo e greve.
Pertanto per l’ennesima volta furono “aperti” dei tasselli di pulitura per verificare l’opportunità dell’operazione ai fini di una migliore leggibilità del dipinto ma certamente anche con l’intenzione di restituirne una lettura più equilibrata.
Era noto a tutti infatti che Pellicioli aveva “tirato su” i colori chiari, generalmente più resistenti degli altri, ma non aveva esteso lo stesso trattamento agli scuri, seguendo in questo una linea di prudenza tradizionale ma non perciò in quel momento meno opportuna e attuale.
Nel quarto di secolo trascorso da allora però la situazione era profondamente cambiata sotto tutti gli aspetti: non solo infatti era incomparabilmente migliorata, soprattutto in seguito alla introduzione di numerosi nuovi prodotti sintetici, e in particolare i solventi, la possibilità di procedere alla pulitura della pellicola pittorica ma era anche mutata la considerazione di quelli che dalla metà degli anni ’70 vengono chiamati Beni Culturali volendosene sottolineare la valenza economica.
Non a caso sono quelli gli anni in cui, anche per rispondere ad esigenze di visibilità degli sponsors, si mette mano ad opere prima ritenute intoccabili, a cominciare dal Michelangelo della Cappella Sistina.
Dopo quello che si è premesso a proposito della divaricazione fra capacità di valutazione da parte degli addetti ai lavori e involontaria inadeguatezza in tal senso dei fruitori è superfluo rilevare la inevitabilità delle polemiche che hanno accompagnato quasi ognuno di quei restauri, e chiarire perché proprio il restauro dell’opera di Leonardo più gravata di valenze simbolico-letterarie ma con in più (per esempio rispetto alla Gioconda) il fatto di essere stata da sempre sotto l’ombra della morte, abbia sollevato critiche così accanite.
In effetti, fra tutti i restauri che sono andati facendosi in quest’ultimo quarto di secolo quello di cui qui si parla gode del non invidiabile primato di essere il più difficile sia sotto l’aspetto metodologico che sotto quello più strettamente tecnico - operativo, tenendo conto che mai come in questo caso i due aspetti sono stati così strettamente interdipendenti.
Segno visibile della arduità dell’impresa l’impiego costante del microscopio, ordinariamente usato solo per dipinti da cavalletto, ma risultato strumento assolutamente indispensabile nella pulitura di quel gigantesco dipinto su tavola cui si può paragonare l’Ultima Cena per la specificità dei procedimenti tecnici adottati da Leonardo.
In una situazione di lavoro così estrema la decisione dell’allora soprintendente e direttore dei lavori Carlo Bertelli di fare svolgere le operazioni in presenza del pubblico, certamente assunta per garantire trasparenza e fruibilità, non può non suscitare ammirazione ma anche sconcerto: tanto più se si considera che, contro ogni prassi di usuale sequenza delle operazioni di restauro, in base alla quale solo alla fine della pulitura si procede alla reintegrazione delle eventuali lacune, in questo caso la restauratrice è stata costretta ad anticipare l’operazione finale di volta in volta in relazione al singolo brano preso in considerazione.
Questo era del resto l’unico modo per mantenere la padronanza di quella superficie tormentatissima e incredibilmente “crettata”, ma ha richiesto di conseguenza continui, del tutto prevedibili aggiustamenti ed ha potuto prestarsi a fraintendimenti da parte di chi non aveva considerato il carattere “provvisorio” dell’intervento e comunque la necessità, da sempre presente ai responsabili del restauro, di una “registrazione” finale.
Ed è un vero peccato che di tale situazione non abbia tenuto conto, nello svolgere le sue considerazioni critiche, l’unico intervento recente di un addetto ai lavori, un restauratore, Jacques Franck, ed uno dei pochissimi in assoluto affidato ad una rivista di divulgazione artistica (in realtà si tratta della trascrizione di un intervento alla 2° Conferenza internazionale sul restauro tenutasi a Firenze nel 1996).
Tale atteggiamento tradisce per la verità una certa difficoltà a capire la duttilità, la capacità estrema di adeguare gli strumenti agli scopi desiderati pur senza perdere nulla in correttezza.
Nel caso in questione poi si rivela la inadeguatezza dei modi di classificazione tradizionale della reintegrazione, “a tono” ovvero “a neutro”, a comprendere una soluzione del tutto inedita consistente nel costituire un tessuto di supporto alle immagini intere o paeziali ancora esistenti pur senza ricostruire o surrogare nulla di ciò che era andato perduto, eppur giungendo a suggerirne la presenza.
Più in generale riaffiora in questo forse più che in altri casi il disagio per un modo di procedere non schematizzabile, che sarebbe ingeneroso voler ricondurre alla nota idiosincrasia nostrana di attenersi alle regole, quando invece si tratta (con le dovute eccezioni) di una particolare attitudine a capire e rispettare la centralità del manufatto artistico nella complessità della sua stratificazione storica anche a costo di contraddire prassi indagative e operative formalmente ineccepibili ma, per così dire, senz’anima.
Certo l’accusa di incoerenza per non avere rimosso anche il soffitto e gli arazzi quasi completamente ridipinti non può avere nessun fondamento, così come sarebbe stata del tutto inopportuna una soluzione rigidamente “filologica”, cioè di non intervento sulle lacune.
Per fortuna non da ora nel nostro Paese il restauro ha saputo sottrarsi agli opposti schematismi dell’orientamento “purista” e di quello ricreativo percorrendo una sua propria via che non è astrattamente equidistante da quelle posizioni ma le aveva comprese e superate già nel secolo scorso con la formulazione del concetto di restauro critico, preludio in qualche modo al riconoscimento da parte di Brandi del restauro come critica in atto.
E’ per questo che il restauro delle opere d’arte in Italia, a differenza che in altri Paesi, non è a carico del solo restauratore, anche se su di lui incombe il massimo della responsabilità,se è vero - com’è vero - che l’opera d’arte è unica e irripetibile ed il restauratore è l’unico autorizzato a mettervi le mani.
Anzi, come è ben noto a tutti, è caratteristica spiccatamente italiana quella di costituire per gli interventi di restauro èquipes interdisciplinari in cui le varie professionalità contribuiscano ognuna per la sua parte alla messa a punto ed alla soluzione dei problemi posti dai singoli casi, ferma restando l’esigenza (non sempre, purtroppo, tenuta presente) che tutto venga costantemente riportato ad unità di obiettivi e di risultati.
Laddove mancasse quest’opera insostituibile di coordinamento i risultati non potrebbero essere positivi: soprattutto se il caso presenta le caratteristiche di complessità estrema che sono proprie dell’oggetto di questa Giornata. E d’altra parte se tale ruolo viene svolto - ed è il caso del Cenacolo - da chi possiede lunga e vera esperienza in tal senso ma soprattutto dispone al suo interno di èquipes già formate e attrezzate allora può succedere che si riesca a progettare ed a mettere in opera soluzioni fino allora inedite e destinate a fungere da esperienza pilota in tutti i casi analoghi: tale è infatti il complesso di interventi e iniziative messe in opera nel Refettorio per renderlo idoneo alla conservazione del dipinto leonardesco, cioè per evitare che in tempi più o meno brevi si debba ricorrere ad un nuovo restauro con conseguenze che è facile immaginare, considerando che ogni intervento su un manufatto artistico, per quanto condotto con la massima correttezza, finisce sempre con l’essere lesivo della sua residua integrità fisica.
Può succedere anche che alcune di queste soluzioni siano risultate troppo spinte (è il caso della illuminazione personalizzata della Cena e della Crocifissione) e pertanto abbiano dovuto essere “normalizzate” e che altre siano risultate di difficile realizzazione perché costrette a dare risposta ad esigenze assai divergenti se non contrastanti, come è avvenuto soprattutto nel caso della “schermatura trasparente” dell’ala del chiostro interessata al percorso di visita, destinata nello stesso tempo a intercettare la luce ed il calore atmosferico (per evitare che il visitatore in estate giunga abbagliato e boccheggiante all’interno del Refettorio e non sia pertanto in grado di vedere e tanto meno di gustare l’Ultima Cena) ma anche a lasciargli la possibilità di apprezzare la magnificenza del tiburio di S. Maria delle Grazie.
Anche di recente si è creduto di poter imputare ai responsabili del restauro che oggi verrà illustrato il fatto che la Cena sarebbe diventata “a rischio” in seguito all’intervento.
Naturalmente a rischio la Cena lo era soprattutto prima: ma è innegabile - e lo abbiamo detto e scritto per primi noi stessi - che il dipinto sia anche ora a rischio . La differenza, tutt’altro che marginale, consiste nel fatto che ora si dispone di tutta una serie di dati e apparecchiature che consentono le necessarie operazioni di controllo ed eventuale manutenzione sia dell’ambiente che del dipinto: il monitoraggio statico della parete della Cena; il monitoraggio micrclimatico e di qualità dell’aria dell’ambiente; il rilevamento informatico dell’intera superficie del dipinto con le informazioni relative allo stato di conservazione, alle indagini eseguite, agli interventi effettuati.
Generalmente l’ostacolo maggiore all’attività di controllo e manutenzione è rappresentato dalle difficoltà di realizzazione pratica, che in questo caso non esistono.
Si tratta soltanto di continuare nell’attività che si è svolta finora, con modalità analoghe anche se non identiche, possibilmente con lo stesso gruppo di lavoro, soltanto mutando di segno il tipo di intervento: anche questo contribuirà a fare dell’esperienza dell’intervento sul Cenacolo un caso esemplare.
Giuseppe Basile
Giornata sul tema Il restauro dell’Ultima cena di Leonardo da VinciRoma, Palazzo Corsini, 27 aprile 1999