Il cantiere in sintesi: dati, problemi, metodi, risultati
Giuseppe Basile
Prima di elencare schematicamente i caratteri fondamentali dell’attività svolta dall’ICR nella Basilica di San Francesco in Assisi a seguito del sisma del 26 settembre 1997, sarà opportuno riproporre alcuni dati essenziali allo scopo di agevolarne la comprensione.
Giuseppe Basile
Prima di elencare schematicamente i caratteri fondamentali dell’attività svolta dall’ICR nella Basilica di San Francesco in Assisi a seguito del sisma del 26 settembre 1997, sarà opportuno riproporre alcuni dati essenziali allo scopo di agevolarne la comprensione.
1. Alcuni dati
Basilica Inferiore
• Intervento di riadesione dell’intonaco in corrispondenza della Vela della Povertà, sopra l’altare, allentato in conseguenza dell’impatto del crollo delle vele di San Matteo e di quella stellata in occasione delle scosse del 26.9.1997.
• Interventi di pronta riadesione dell’intonaco e della pellicola pittorica in prossimità della Cappella di San Giovanni, sottostante alla zona del transetto sinistro.
Basilica Superiore
• Interventi di pronta urgenza immediatamente dopo il sisma, soprattutto in prossimità delle zone di volta crollate o lesionate (per esempio, in corrispondenza dei volti di Cristo e della Madonna di Jacopo Torriti).
• Interventi di consolidamento della volta dal basso previa stuccatura di tutte le lesioni e microfratture, impiegando una malta speciale messa a punto dopo due mesi di prove e sperimentazioni in laboratorio: il lavoro, che ha impegnato 70 restauratori di opere d’arte (selezionati tra coloro che avevano precedentemente lavorato in Basilica), ed è durato 4 mesi, è stato completato dalla immissione di analoga malta da sopra (dall’estradosso), effettuata da maestranze edili specializzate guidate da restauratori.
• Interventi di pulitura dei dipinti delle pareti, soprattutto delle Storie di San Francesco di Giotto, ricoperti da uno spesso strato di polvere tenacissima in conseguenza del crollo della volta; l’operazione, delicatissima a causa della ben nota fragilità di quei dipinti, ha avuto la durata di 6 mesi impegnando 50 restauratori.
• Interventi di reintegrazione delle lacune in corrispondenza delle lesioni e delle fratture, presenti in particolare sulla volta, ricorrendo al metodo dell’abbassamento ottico e cromatico dell’intonaco con cui sono state colmate le lacune di modo che esso non disturbasse la leggibilità delle immagini pur senza aggiungere nulla alla materia originale (vi hanno lavorato 60 restauratori per 8 mesi).
• Rimozione della residua decorazione murale degli spezzoni delle vele crollate (tra cui il Cristo della vela di San Girolamo) e di una coppia di Santi nell’arcone di ingresso per consentirne la ricostruzione, con successive operazioni di restauro in laboratorio, applicazione su nuovo supporto e ricollocazione sulla volta (10 restauratori per 2 mesi).
• Recupero, consolidamento e ricollocazione di una quota parte (30%) dei mattoni originali con frammenti di affresco ancora adesi in corrispondenza della parte bassa dei due archi trasversali crollati (10 restauratori per 2 mesi).
Dipinti in frammenti
• Recupero dei materiali crollati dalle volte (macerie) e selezione di circa 300.000 frammenti di dipinto murale: il recupero fu effettuato da Vigili del Fuoco guidati da restauratori e storici dell’arte (circa 10 per 2 mesi), la selezione da volontari (circa 20 per 6 mesi) guidati da restauratori e conservatori.
• Ricerca degli 'attacchi' e posizionamento dei frammenti relativi agli 8 Santi.
• Riassemblaggio, ricomposizione, applicazione su nuovo supporto, restauro e ricollocazione (provvisoria e sperimentale) della coppia di Santi Rufino e Vittorino (per la riapertura della Basilica restaurata al culto).
• Ricerca degli 'attacchi' e posizionamento dei frammenti relativi al costolone trasversale ed alla vela di San Girolamo (nel nuovo, più spazioso laboratorio prefabbricato, appositamente progettato e installato nel Giardino dei Novizi).
• Riassemblaggio, ricomposizione, applicazione su nuovo supporto, restauro e ricollocazione dei frammenti appartenenti ai rimanenti 6 Santi: Francesco e Chiara, Benedetto e Antonio da Padova, Domenico e Pietro Martire (lavoro portato a termine per il 4° anniversario del sisma, 26 settembre 2001).
• Riassemblaggio, ricomposizione, applicazione su nuovo supporto, restauro e ricollocazione dei frammenti appartenenti al costolone trasversale ed alla vela di San Girolamo (in occasione del 5° anniversario del sisma, 26.9.2002).
• Riassemblaggio, ricomposizione, applicazione su nuovo supporto, restauro e ricollocazione dei frammenti appartenenti al costolone trasversale ed alla vela di San Matteo. Quanto alla vela stellata è stata eseguita la sola operazione di ‘abbassamento ottico-tonale’ dell’intonaco.
• Acquisizione digitale dei 120.000 frammenti relativi alla vela con San Matteo di Cimabue, con conseguente costituzione di un 'archivio virtuale' corrispondente al magazzino dei frammenti reali, messa a punto di un soft di corrispondenza analogica tra ogni frammento e il suo doppio virtuale (anche perchè non sarebbe stato possibile numerare materialmente i 120.000 frammenti) e 'bilanciamento' cromatico tra le immagini digitali dei frammenti, acquisiti ad altissima definizione, e le immagini fotografiche preesistenti al sisma.
• Messa a punto di un primo soft sperimentale di riassemblaggio mediante computer relativo alla copia su intonaco della Testa di san Matteo (circa 300 frammenti) con individuazione di aree di massima probabilità.
• Messa a punto di un secondo soft sperimentale di riassemblaggio con ausilio del computer relativo alla copia su intonaco della figura di San Matteo (circa 1000 frammenti) con posizionamento esatto di singoli frammenti.
• Messa a punto di un definitivo soft di riassemblaggio con ausilio del computer relativo ai frammenti originali della vela di San Matteo con collocazione di circa 500 frammenti (per conseguire risultati migliori si sarebbe dovuto disporre di un 'cervellone' e di un monitor gigantesco).
Complessivamente sono state impiegate circa 100.000 ore di lavoro per gli interventi sulle decorazioni in situ delle 2 Basiliche (5000 mq) e circa 60.000 per gli interventi sui frammenti (circa 100.000 per un totale di 100 mq), per una spesa complessiva di 6,5 mld (compreso il progetto sperimentale di riassemblaggio informatico).
Le professionalità implicate (a parte gli operatori d’emergenza, in particolare i Vigili del Fuoco, e i volontari non specializzati) sono state numerosissime, in particolare il restauratore di opere d’arte, lo storico d’arte, il fotografo, l’architetto, il geometra, il grafico, l’informatico, il fisico, il chimico, il biologo, l’elaboratore di immagine.
Quanto alle indagini, analisi ed esami scientifici di più stretta competenza ICR in quanto responsabile dell’attività di coordinamento, eccone di seguito alcune:
$1- sistema fisico di deumidificazione della paretenord della Basilica Superiore bagnata;
$1- studio per il ripristino del monitoraggio microclimatico antecedente al sisma;
$1- studio per inibire fenomeni di condensa nell’estradosso della volta;
$1- modello di simulazione delle condizioni ambientali nel sottotetto;
$1- studio fattibilità ricostruzione virtuale vele crollate e relativo modello;
$1- studio fattibilità filtro microclimatico all’ingresso della Basilica Superiore;
$1- indagini e prove di laboratorio per la messa a punto della malta per il consolidamento dei dipinti murali della volta e del loro supporto murario;
$1- indagini, modelli e prove di laboratorio sulla funzionalità delle strutture di supporto alla volta in funzione di prevenzione antisismica;
$1- studi sperimentali per la messa a punto di metodi diagnostici sulla penetrazione delle malte di consolidamento nelle murature;
Infine le date fondamentali:
- 29 novembre 1999: viene riaperta al culto, alla vigilia del Giubileo, la Basilica Superiore, dopo un intervento di conservazione e restauro durato poco più di 2 anni ( il 1° novembre 1997 era stata riaperta l’Inferiore) durante i quali erano stati altresì selezionati e identificati i frammenti relativi al primo crollo e collocati provvisoriamente (e sperimentalmente) i Santi Rufino e Vittorino ricomposti e restaurati;
- 21-23 marzo 2001: Convegno internazionale La realtà dell’utopia, nel corso del quale viene affrontato e risolto il problema di se reintegrare e come reintegrare le lacune nei frammenti ricomposti (problema dibattuto precedentemente e ripetutamente all’interno del “Comitato scientifico europeo per il restauro delle decorazioni murali della Basilica”, con componenti anche extra europei);
- 26 settembre 2001: giunge a compimento la prima parte del progetto relativo ai frammenti mediante la ricollocazione degli 8 Santi dell’arcone;
- 26 settembre 2002: viene ricollocata anche la vela di San Girolamo, giungendo così al ‘risarcimento’ completo di uno dei due ‘buchi’ figurativi causati dal sisma (circa 80.000 frammenti su una superficie di poco più di 80 mq);
- 12 novembre 2004 e 27 maggio 2005: seminari specialistici internazionali per decidere se e come procedere per la vela di San Matteo e per quella stellata;
- 5 aprile 2006: ricollocazione della vela di S. Matteo e ‘reintegrazione’ della vela stellata.
2. Strutture operative
Già nella notte tra il 26 ed il 27 settembre venne costituita dal Presidente del Consiglio pro tempore una Unità di crisi per i Beni culturali a livello interregionale Umbria-Marche[1], dalla quale ebbe poi origine la Commissione per il restauro della Basilica dal prevalente carattere tecnico-specialistico ma con la partecipazione di competenze istituzionalmente e specificamente amministrative nonchè di rappresentanti del Sacro Convento (cioè di quella che, in gergo amministrativo, viene chiamata “la proprietà”)[2].
Quanto ai poteri, la presenza al suo interno del Commissario delegato per i Beni culturali (che peraltro coincideva con la carica di Direttore Generale del Ministero omonimo[3]) faceva si che ogni sua decisione diventasse quasi automaticamente atto amministrativo e pertanto - tenuto conto che a lui era affidata la gestione dei fondi del terremoto - di immediata attuabilità.
La realizzazione delle opere era affidata agli Uffici del Ministero BCA istituzionalmente competenti tramite i loro funzionari delegati, e precisamente alla Soprintendenza BAAAS dell’Umbria per gli interventi sugli edifici e all’ICR per gli interventi sul ‘patrimonio figurativo’[4].
L’incarico ministeriale all’ICR aveva molteplici motivazioni, e in particolare:
$1- una lunga tradizione di interventi sulle decorazioni murali e sulle altre opere d’arte della Basilica, praticamente fin da quando aveva cominciato ad operare[5];
$1- una specifica conoscenza sotto l’aspetto conservativo non solo del Complesso Basilicale ma dell’intero territorio umbro[6];
$1- le passate esperienze in situazioni analoghe, in particolare in Friuli e in Campania[7], ma anche ben prima, fin da quando dovette occuparsi del recupero, ricomposizione, restauro e ricollocazione dei dipinti murali ridotti in frammenti dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale (i casi più conosciuti sono, come è ben noto, il ciclo di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta della Chiesa di Santa Maria della Verità in quella città, e quello di Andrea Mantegna nella Cappella Ovetari della Chiesa degli Eremitani a Padova);
$1- soprattutto, le difficoltà non comuni presentate dai danni di cui le decorazioni murali della Basilica erano state oggetto.
Proprio perchè le Autorità preposte erano ben consce della complessità estrema di un intervento adeguato ad un complesso monumentale così importante l’ICR fu inoltre incaricato di indirizzare e coordinare le necessarie indagini scientifiche, con particolare riguardo alla compatibilità tra i prodotti per gli interventi conservativi e i materiali costitutivi dei manufatti.
Inoltre, pur muovendosi all’interno del cantiere generale per il restauro degli edifici danneggiati del Sacro Convento e della Basilica, il cantiere ICR godeva di piena autonomia per tutto quanto atteneva appunto al patrimonio figurativo, come era naturale trattandosi dell’Ufficio specialistico nel restauro del medesimo Ministero BCA non subordinabile gerarchicamente ad un Ufficio territoriale e, per di più, operante nello specifico suo proprio del restauro, rispetto al quale le posizioni rispetto alla Soprintendenza risultavano se mai ribaltate, nel senso che - sotto l’aspetto meramente tecnico - era la Soprintendenza a doversi adeguare alle indicazioni dell’ICR e non viceversa (come poi di fatto avvenne).
Al necessario raccordo progettuale e operativo si provvedeva tramite la Commissione per il restauro ed il Vice Commissario delegato ai Beni culturali, che fungeva contestualmente da trait-d’union nei confronti del Commissario delegato.
Infine, in base alle medesime motivazioni (per quanto non ci sia mai stato un atto formale, ma appunto a riconoscimento della sua particolare natura, tecnico-specialistica e non amministrativo-gestionale quale quella degli Uffici territoriali del Ministero) l’ICR si assunse il compito di progettare e dirigere l’attività culturale del cantiere, nei vari aspetti che le situazioni richiedevano: convegni, seminari, mostre, visite guidate, attività didattica con le scuole, comunicazione delle attività in corso e dei risultati man mano raggiunti tramite strumenti a stampa e sito internet (non tramite i mass-media, compito che si era riservato il coordinatore della Commissione).
Anche il “Cantiere del Patrimonio figurativo”, più comunemente chiamato, a seconda dei casi, “Cantiere dei dipinti” o “Cantiere dei frammenti” (e definitivamente con quest’ultima denominazione dopo la riapertura della Basilica Superiore) aveva al suo interno - e questo può spiegare l’oscillazione a cui facevo riferimento - una struttura complessa, ereditata in parte dalla situazione di emergenza dei primissimi giorni dopo il sisma, quando - contravvenendo alle indicazioni dell’ICR - furono fatti operare come volontari tanti non restauratori, in parte imposta dalla riluttanza della Soprintendenza a ‘cedere’ completamente un ‘diritto’ che riteneva, per competenza territoriale, esclusivamente suo, nonostante le buone ragioni esposte prima e nonostante il dato di fatto incontestabile della extraterritorialità del Sacro Convento e della Basilica.
Di fatto, si trattava di 2 cantieri con il medesimo direttore dei lavori.
Il primo, relativo ai dipinti murali rimasti in situ, aveva tutte le caratteristiche di un cantiere ‘normale’, cioè come da norme allora e tuttora vigenti, quindi con un Ufficio direzione lavori (UdL) che affianca il DdL senza però condividerne decisionalità e responsabilità - se mai con l’unica, non grave, anomalia che alcuni membri dell’UdL erano contemporaneamente a capo di altrettante strutture operative interne all’ICR che continuavano a svolgere l’attività ordinaria dell’Istituto, con i suoi ritmi, i suoi impegni, le sue scadenze, soprattutto nei confronti della scuola per restauratori[8].
L’altro, relativo ai frammenti, vedeva accanto e in parte coincidente con il DdL e l’UdL un inedito (e anch’esso mai formalizzato) Gruppo di studio e progettazione per il riassemblaggio dei frammenti a costituzione numericamente paritetica tra Soprintendenza, Facoltà di conservazione dell’Università della Tuscia e, appunto, ICR nella persona del DdL e di un componente dell’UdL[9]. Il Gruppo di studio si trovava poi spesso ad essere allargato per via di convenzioni stipulate con altri Enti specialistici , soprattutto pubblici, da parte dell’Ufficio del Commissario Delegato o anche di semplici accordi informali da parte della Soprintendenza con Enti di natura varia o con Associazioni e strutture private[10].
Del resto anche l’équipe di lavoro stabile impegnata nella individuazione e riassemblaggio dei frammenti era piuttosto anomala, formata com’era da operatori di varia formazione e di varia provenienza: restauratori liberi professionisti con normale contratto di lavoro, ‘borsisti’ dell’Università della Tuscia e dell’Università di Roma La Sapienza, restauratori appartenenti alla Amministrazione dei BBCC in temporaneo distacco al cantiere ma pur sempre dipendenti dall’Ufficio di appartenenza – mentre necessariamente eterogenea era il resto dell’équipe in quanto costituita da altre, diverse professionalità[11].
3. Aspetti organizzativi e gestionali
In un primo momento, per tutto il periodo dell’emergenza e dei conseguenti interventi conservativi d’urgenza, tutti i fondi, anche quelli destinati all’intervento sui dipinti murali, erano stati accreditati alla Soprintendenza, che così fungeva da ‘ente pagatore’ per gli interventi diretti dall’ICR.
In seguito, superato il periodo dell’emergenza, i fondi necessari furono accreditati di anno in anno direttamente all’ICR alla luce delle normative nel frattempo intervenute (in particolare, la ben nota Legge Merloni), e, ovviamente, anche i procedimenti adottati furono quelli previsti dalla legge suddetta, ma con una eccezione di grande rilievo nella scelta degli operatori incaricati di identificare e riassemblare i frammenti, motivata dalla natura assolutamente atipica del lavoro, che non consentiva pertanto quella rotazione nell’invito a gara imposta dalla legge per garantire la libera concorrenza proprio per la estrema difficoltà di reperire sul mercato operatori in possesso di quel particolare tipo di esperienza.
Si tratta infatti di esperienze che non fanno parte del normale percorso formativo di un restauratore né, tanto meno, di uno storico dell’arte, se mai di un archeologo, che però nel caso in questione non sarebbe stato competente, avendo a che fare con manufatti artistici che avrebbero esulato, e non solo cronologicamente, dal suo ambito culturale.
Nel cantiere dei frammenti, a parte il personale tecnico dipendente dal Ministero BCA, ovviamente con funzione di progettazione, coordinamento e direzione tecnica dei lavori, gli operatori per la identificazione e il riassemblaggio dei frammenti erano nella stragrande maggioranza restauratori diplomati presso l’Istituto Centrale per il Restauro, che avevano avuto quel tipo di esperienza da allievi ed anche, spesso, da professionisti, in occasioni analoghe a quella di cui trattiamo (a cominciare dal sisma del Friuli) ovvero operando per il recupero di frammenti rinvenuti nel corso di scavi archeologici (all’ Abbazia di San Vincenzo al Volturno, a Santa Susanna a Roma, etc.).
Di diversa formazione, fondamentalmente storico-artistica, era un altro piccolo gruppo di allievi o ex allievi della Facoltà di conservazione dell’Università della Tuscia, che, sotto la guida della loro professoressa Maria Andaloro, avevano avuto un’esperienza analoga in Turchia.
Con l’Università della Tuscia, così come con l’Università di Roma La Sapienza (Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte), fu firmata una convenzione in base alla quale il Commissario Delegato, e per esso l’ICR, accettava la collaborazione, a carattere volontario e pertanto senza oneri, degli studenti sotto forma di tirocinio formativo[12].
A questi ‘volontari’ specialisti poterono essere corrisposte delle ‘borse di studio’ grazie ai fondi raccolti da mass media e associazioni culturali e a quelli raccolti in Giappone, mentre il progetto di ricomposizione dei frammenti aiutato dal computer potè contare, almeno nella prima fase, su un finanziamento della Commissione Europea, Direzione Generale EAC (Progetto Raffaello, Laboratori europei del Patrimonio).
A garantire il coordinamento tra i vari operatori provvedeva il DdL soprattutto mediante incontri di cantiere che si tenevano con ritmo abbastanza frequente, in risposta alle esigenze poste dall’avanzamento dei lavori.
Un discorso a sè meriterebbe (ma qui lo si può solo accennare) l’influenza delle condizioni di contesto, ed in particolare le esigenze di culto e di rappresentatività della Basilica Superiore, che hanno pesantemente penalizzato i tempi di avanzamento dei lavori relativi ai frammenti se solo si considera che si è dovuto saltare a piè pari l’anno del Giubileo (il 2000) e che, negli altri anni, i periodi in cui poteva essere montato un ponteggio per il tempo minimo indispensabile alla ricollocazione dei frammenti ricomposti e restaurati erano solo due: luglio - agosto (quest’ultimo generalmente, nel nostro Paese, dedicato alle ferie) e quello che va dall’Epifania (in realtà, non prima del 15 gennaio) alla settimana anteriore alla Domenica delle Palme[13].
4. Problemi operativi
Da quanto si è detto fin qui si può capire facilmente come uno dei più difficili problemi a livello operativo fosse proprio costituito dal rapporto obbligato e ineludibile tra interventi all’edificio e interventi alle decorazioni murali e quindi dalla necessità di valutare preventivamente se e quali conseguenze negative potessero avere sulle decorazioni murali interventi di routine sulle murature generalmente considerati privi di rischi.
Per la verità bisogna sottolineare che spesso tali rischi non vengono avvertiti e pertanto nemmeno rilevati da parte degli specialisti e operatori della conservazione e del restauro degli edifici (architetti, ingegneri, geometri, etc.) a causa di un atteggiamento radicalmente diverso da quello di storici dell’arte e restauratori di opere d’arte: non a caso viene da loro definito “pelle” tutto ciò che ‘copre’ gli organismi murari, si tratti degli affreschi di Michelangelo alla Cappella Sistina come dei mosaici della Cappella Palatina come anche, però, di un comunissimo intonaco la cui unica funzione è quella di proteggere, coprendola, la sottostante muratura[14]. Nel caso della Basilica, indubbiamente a causa del valore della sua decorazione pittorica, che poneva ogni nostro atto sotto gli occhi di tutti, ma anche perchè il gruppo di regia era costituito, almeno in parte,da specialisti di lunga esperienza, queste difficoltà hanno finito generalmente con il tradursi in stimoli profondi per sperimentare nuovi metodi e nuove tecniche, nonchè nuovi prodotti per la conservazione e il restauro.
Mi limiterò, tra i molti, a citare 3 soli esempi tra i più indicativi.
Il primo quando fu necessario ancorare le volte al tetto per il tempo necessario a costruire il ponteggio che avrebbe dovuto funzionare anche da puntello per la volta stessa. Si era agli inizi di ottobre 1997 e le scosse erano ancora frequentissime e di grande intensità e, di conseguenza, altissime le probabilità di crollo totale o parziale delle volte rimaste in situ: ma ciononostante si decise di rimuovere il materiale di riporto che le copriva quasi completamente (lo strato più antico risaliva al sec. XV), di svuotare le lesioni dai materiali penetrativi in modo da poterle riempire successivamente di una apposita malta ad evitare che la resina epossidica, con la quale si sarebbero dovute applicare le strisce di kevlar e carbonio, scolasse attraverso di esse sulla sottostante faccia dipinta rapprendendovisi e quindi danneggiandola irreparabilmente (dato che, come è noto, quando la resina ha ‘tirato’ non esiste più la possibilità di rimuoverla dalla superficie interessata senza danneggiare in modo irreparabile le zone su cui si è consolidata - né con mezzi meccanici, né con mezzi chimici o chimico-fisici ovvero biologici).
Il secondo quando si trattò di consolidare la muratura della volta senza mettere a rischio l’integrità delle decorazioni pittoriche, con un’operazione condotta, tra il giugno e il settembre del 1998, senza ricorrere - secondo la prassi più diffusa dei consolidamenti murari - alla pressione artificiale ed al preventivo ‘lavaggio’ e impiegando una quantità contenutissima di acqua nell’impastare la malta.
Il terzo infine quando si trattò di decidere se e come utilizzare mattoni originali (che era stato possibile recuperare tra le macerie) con il loro intonaco dipinto ancora adeso per la ricostruzione dei due costoloni trasversali (luglio 1998): si giunse ad una soluzione che consentì di soddisfare esigenze almeno apparentemente opposte (intendo riferirmi alla tenuta strutturale e alla salvaguardia dei materiali originari), unendo tra di loro con una sorta di malta armata un certo numero di mattoni fino a farne come dei monoliti.
In tutti e tre i casi è risultata vincente la capacità, da parte di chi come me si era assunto il compito di difendere la incolumità dei dipinti murali, di offrire soluzioni alternative concrete e rapide o quanto meno di indicare ipotesi realistiche di sperimentazione di nuove soluzioni.
Ciò era reso possibile, oltre che dalla mia più che ventennale esperienza di gestione di cantieri complessi di decorazioni murali nell’ambito dell’attività corrente dell’ICR[15], proprio dalla consuetudine al lavoro interdisciplinare che ha caratterizzato fin dalla sua fondazione, nell’impostazione datane da Brandi, l’intera attività dell’Istituto.
Ed è importante notare che tale prassi non vigeva solo tra i vari settori dell’Istituto, ma anche e direi più efficacemente nei confronti di collaborazioni di enti o operatori specializzati esterni, per il semplice motivo che ad essi ci si poteva rivolgere in maniera più strettamente mirata e attendersi risposte in tempi più rapidi, data la disponibilità, di cui generalmente godevano, di dedicarsi a pieno tempo alla soluzione del problema posto. E sarebbe superfluo aggiungere che una prassi di questo tipo, se si è confermata sempre positiva anche nei casi più complessi, dagli affreschi di Giotto nella Cappella Scrovegni all’Ultima Cena di Leonardo, era apparsa subito come necessaria in una situazione di prolungata emergenza quale quella riscontrabile nella Basilica (le scosse, circa 10.000, continuarono infatti fino al giugno 1998).
Così quando, emergenza nell’emergenza, si pose il problema di come evitare che si aggiungesse danno a danno intervenendo in maniera affrettata e superficiale (come da parte dei responsabili del restauro murario si intendeva fare per mancanza di esperienza specifica) su quella parte della decorazione murale della parete destra interessata da infiltrazioni di acqua dal cantiere del sottotetto fu proprio la possibilità di disporre in tempo reale, cioè il tempo occorrente al trasferimento da Roma ad Assisi, dei tre specialisti necessari, due ICR e uno CNR, che consentì di bloccare sul nascere anche altre iniziative che, nel caso migliore, avrebbero fatto perdere tempo prezioso proprio nel momento in cui quello che più serviva era appunto la rapidità di diagnosi e di intervento[16].
Naturalmente, in questo come in tutti gli altri casi[17], un elemento ulteriore di vantaggio era costituito dalla profonda conoscenza che del monumento avevano sia il DdL che la stragrande maggioranza di tutti coloro che sono stati ingaggiati a lavorare in Basilica o per la Basilica[18].
Intendo dire che l’attività effettuata per la conservazione ed il restauro delle decorazioni murali della Basilica non è consistita soltanto nelle operazioni eseguite su quelle decorazioni, dal momento che il “cantiere visibile”, quello che tutti hanno potuto vedere nei notiziari e nei servizi giornalistici e televisivi, è stato costantemente sorretto da quello che vorrei chiamare “cantiere invisibile”, perchè dislocato fuori dalla Basilica e per giunta non in un solo luogo, ma in tanti luoghi - certo più di quanti erano stati gli enti coinvolti nell’attività di ricerca storica, di indagini, ricerche e prove scientifiche nonché di controllo strumentale delle numerose iniziative sperimentali[19].
Infatti, pur nella consapevolezza delle enormi difficoltà che sempre accompagnano le situazioni di emergenza, si era deciso da subito di non venire mai meno alla piena correttezza dei metodi e dei procedimenti anche nei casi in cui essa poteva apparire incompatibile con i tempi a disposizione.
È da questa opzione di fondo che sono scaturite alcune decisioni che all’inizio sono state accolte con perplessità anche dagli ‘addetti ai lavori’. Mi riferisco in particolare alle sperimentazioni effettuate per mettere a punto un nuovo tipo di malta per il consolidamento della volta, quando furono chiamate a gara alcune Ditte fabbricatrici di malte per restauro alla luce di requisiti definiti di volta in volta dall’ICR e dagli strutturisti della Commissione, fino a premiare quella che più si era avvicinata ai requisiti proposti[20]; ai controlli strumentali relativi ai fibrorinforzati impiegati sull’estradosso della volta, condotti presso diversi laboratori in varie città d’Italia, ma all’insaputa l’uno dell’altro; o, infine, alla messa in opera di un ‘cantiere di progetto’ per definire con la massima precisione e trasparenza tipologia e quantità del lavoro da fare sulle decorazioni rimaste in situ e, di conseguenza, tempi e risorse necessarie, quando ancora le scosse facevano crollare tanti edifici danneggiati (che però, a differenza della Basilica, non erano stati ancora messi in sicurezza)[21].
5. Le scelte metodologiche
Come è noto, nel progettare l’intervento sui dipinti murali rimasti, pur se variamente danneggiati, al loro posto ci si era riproposto soltanto lo scopo di evitare che potessero prodursi nuovi danni o ulteriori fenomeni di degrado.
Era però convinzione di tutti, della Commissione per il restauro della Basilica come dei Frati del Sacro Convento, che l’intervento dovesse riguardare anche aspetti meno vitali e urgenti ma ugualmente necessari per restituire al sacro edificio il decoro anteriore al sisma: asportando tutto ciò che poteva interferire negativamente con la lettura dell’opera e operando per poterne assicurare di nuovo la più piena fruizione.
In termini tecnici si trattava di procedere alla pulitura della superficie pittorica e di ricostituire, quanto meno potenzialmente, l’unità dell’immagine intervenendo sulle lacune, cioè sulle zone rimaste prive di tessuto pittorico: non mettendo però in discussione i metodi impiegati nei precedenti interventi, sebbene fossero notevolmente eterogenei fra di loro.
Quanto alla restituzione del testo pittorico, tre erano le opzioni teoricamente possibili:
$1- -non trattare in nessun modo le lacune in modo che fosse immediatamente e drammaticamente percepibile l’esperienza traumatica da cui erano state interessate le pitture;
$1- ‘chiudere’ le lacune anche ricorrendo a tecniche di reintegrazione facilmente riconoscibili - da vicino - come intervento di restauro, privilegiando in tal modo l’aspetto estetico dell’opera;
$1- lasciare visibili le lacune ma trattandole in modo da non farle interferire negativamente con la lettura dell’immagine, riuscendo pertanto a contemperare l’esigenza estetica e quella storica.
Si è ritenuto preferibile adottare la terza opzione come più rispondente a criteri di correttezza metodologica e di rispetto per la storia dell’opera (in particolare in queste decorazioni, in occasione di precedenti interventi di restauro, dall’’800 in poi, le lacune erano state reintegrate ‘a neutro’).
Pertanto si è fatto ricorso al metodo dell’ ‘abbassamento ottico-tonale’ dell’intonaco impiegato per colmare le lacune di modo che non ne venisse disturbata la leggibilità delle opere pur senza ricostituire il tessuto pittorico. Sono state escluse di conseguenza tecniche di reintegrazione delle lacune sostanzialmente mimetiche, compresa quella messa a punto più di mezzo secolo fa da Cesare Brandi, fondatore e primo direttore dell’ICR, e conosciuta in tutto il mondo sotto il nome di ‘tratteggio’[22].
Quanto ai frammenti, scartate come inaccettabili le varie proposte di restituzione delle immagini crollate secondo tecniche mimetiche[23], soprattutto grazie al sostegno incondizionato dato solennemente dalla Comunità dei Frati del Sacro Convento[24] all’ipotesi di ricollocazione dei frammenti originari, dunque alla opzione della autenticità[25], ci si veniva a trovare di fronte ad un doppio interrogativo.
Infatti, se la situazione era complessivamente tale, per quantità e soprattutto per significatività dei frammenti identificati[26], da potere procedere alla restituzione potenziale delle immagini, allora si sarebbe potuto procedere nell’opera di conservazione e restauro fino a ricollocarli nel luogo da cui erano crollati, mentre in caso contrario ci si sarebbe dovuti limitare a conservare in museo le immagini riassemblate[27].
Riconosciuta, anche in seguito a numerosi confronti pubblici con specialisti, realisticamente attuabile la prima opzione, il secondo interrogativo consisteva nel decidere quale metodo impiegare per la restituzione del testo pittorico.
Si procedette ancora una volta secondo il metodo, caratteristico dell’ICR, dell’intervento campione (o ‘intervento pilota’), scegliendo allo scopo la coppia di Santi più significativa sotto l’aspetto tecnico, i Santi Rufino e Vittorino.
I relativi frammenti furono ricomposti seguendo una metodologia analoga a quella impiegata prima di allora, a cominciare dai casi ‘storici’ degli affreschi quattrocenteschi di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta della chiesa viterbese di Santa Maria della Verità e di quelli di Andrea Mantegna e soci nella Cappella Ovetari della Chiesa degli Eremitani a Padova[28], che del resto si ponevano come precedenti inderogabili anche, e direi soprattutto, dal punto di vista della reintegrazione delle immagini.
Tra i due casi però, al di là delle innegabili analogie, esistevano diversità tutt’altro che trascurabili.
Nel caso di Viterbo, per esempio, si trattava di ricostituire la decorazione di un intero ambiente, di ridotte dimensioni, unitario nel rapporto spazio reale-spazio figurato, mentre invece nel caso dei dipinti della Basilica si era in presenza di una parte minima della decorazione complessiva dell’edificio (180 mq su 5.000), in un ambiente di imponenti dimensioni (in cui pertanto sarebbe stato irrealistico puntare sulla riconoscibilità di un intervento di restauro condotto mediante ‘tratteggio’), con una decorazione ampiamente lacunosa e comunque segnata in maniera macroscopica dalle tracce di precedenti restauri, a cominciare dagli altri 8 Santi dell’arcone rimasti in situ.
Ultimo, non trascurabile fattore di diversità era costituito dalla aumentata esigenza di percezione della materia originale in quanto segno inequivocabile dell’autenticità di un’opera, pertanto da alterare il meno possibile con ‘completamenti’ dell’immagine per quanto perfettamente riconoscibili.
Anche nel caso dei frammenti, quindi, l’opzione di fondo, sebbene in via provvisoria e sperimentale, fu quella di non reintegrare in maniera mimetica l’immagine, limitandosi a ricostituirne l’unità potenziale tramite l’abbassamento ottico delle lacune, del resto in perfetta sintonia con quanto era stato fatto precedentemente nel trattamento delle lacune delle pitture rimaste in situ.
Ricollocato prima della riapertura della Basilica restaurata (28 novembre 1999) il pannello-campione, si ebbe subito conferma di quanto era stato previsto: le immagini dei 2 Santi ricostituite funzionavano benissimo da vicino, ma producevano un effetto di insopportabile ‘sfarfallio’ dal momento in cui si erano venute a trovare a più di 20 metri di distanza e in certe condizioni di illuminazione naturale (soprattutto la luce radente proveniente dal rosone), ovviamente ineliminabili.
La definizione del problema, dunque (e anche questo era stato previsto), doveva essere rinviata al momento in cui tutta la decorazione mancante in quella zona sarebbe stata ricostituita o, quanto meno, allorquando anche gli altri 6 Santi sarebbero stati ricollocati e di conseguenza tutta la decorazione dell’arcone ricomposta.
Solo così sarebbe stato possibile ricostituire la struttura formale della decorazione tenendo conto del rapporto intrinseco con l’architettura reale e con quella dipinta, riportando le figure dei Santi a campeggiare, per quanto possibile, all’interno delle finte bifore con fondo azzurro pur senza doverne ripristinare mimeticamente le mancanze.
I dati fondamentali di riferimento erano due: alle basi dell’arcone sul quale sono dipinte le 8 coppie di Santi stanno due trifore reali alle quali si rifanno, evidentemente, le bifore cosmatesche dentro le quali sono collocati i Santi; gli 8 Santi rimasti in situ, perchè dipinti sulle pareti, sono però giunti a noi in cattive condizioni, con zone completamente mancanti e altre ridotte quasi allo stato di larve - una situazione, questa, che peraltro non interessa soltanto la pittura dell’arcone ma buona parte della decorazione della Basilica Superiore (circa la metà), dai cicli di Cimabue ai registri alti della navata, alla controfacciata (peraltro confinante con l’arcone).
La conseguenza di quest’ultima constatazione è che sarebbe stato quanto meno incongruo cercare di ricostituire una pittura in modo tale da renderla almeno apparentemente integra grazie ad interventi di ricostruzione mimetica delle parti mancanti proprio laddove più distruttiva era stata l’azione del terremoto.
Si è optato pertanto per una soluzione che, pur non nascondendo le tracce di un evento così terribile, garantisse ciononostante la migliore fruibilità possibile dell’opera attenuando al massimo l’interruzione del tessuto pittorico in corrispondenza dell’architettura dipinta e del fondo azzurro e limitandosi ad attutire il disturbo visivo che avrebbero recato le lacune all’interno delle figure dei Santi se il loro intonaco non fosse stato otticamente ‘abbassato’ ad acquerello fino a risultare retrocesse rispetto all’emergere delle zone originali delle immagini ricostituite.
Ciò ha consentito di restituire all’opera la sua struttura formale originaria, ricostituendo il rapporto spaziale tra figura, architettura e fondo e quindi ristabilendo l’iniziale continuità sia con gli altri Santi dell’arcone che con le trifore reali.
Il restauro e la ricollocazione della vela di San Girolamo e del relativo costolone si sono ovviamente ispirati agli stessi criteri[29], così come gli analoghi interventi sulla vela di San Matteo e sul relativo costolone, pur senza potere ottenere (ma lo si sapeva fin dall’inizio) i medesimi, positivi risultati[30].
Rispetto alla vela di San Girolamo (e agli 8 Santi dell’arcone) infatti, la vela di San Matteo risultava incomparabilmente più penalizzata: non soltanto - e non tanto - a causa del numero dei frammenti identificati (complessivamente circa 20.000, cioè una percentuale inferiore al 25%) ma soprattutto a causa della impossibilità di ricostituire anche solo parzialmente, ma significativamente, le zone più importanti dell’opera, i volti del Santo e dei 2 Angeli, le mani, i piedi, il libro e tutto ciò che avrebbe potuto costituire elemento di forza per la restituzione dell’immagine e che invece era andato perduto irrimediabilmente nel tremendo impatto dei materiali crollati con l’altare e con il pavimento[31].
In condizioni così critiche, anche dal soft appositamente messo a punto per il riassemblaggio dei frammenti con l’ausilio del computer non ci si sarebbe potuto attendere più di quel poco che ha dato sotto l’aspetto operativo, anche a causa delle enormi difficoltà a carattere ingegneristico (in particolare l’impossibilità di disporre di un monitor gigantesco esteso quanto la vela, cioè circa 35 mq, e la difficoltà di disporre di una memoria di dimensioni adeguate) la cui soluzione avrebbe richiesto investimenti enormi, ingiustificabili se rapportati ai vantaggi realisticamente prevedibili.
D’altra parte, avendo dato risultati indubbiamente positivi sotto l’aspetto metodologico (ed è la prima volta che ciò accade) è da prevedere che esso potrà essere utilmente impiegato in casi meno estremi di quello della vela di San Matteo[32].
Quanto a questa, data l’impossibilità di ricostituire anche solo parzialmente l’unità potenziale dell’opera e d’altra parte l’esigenza di ridare funzionalità ai frammenti identificati e ricollocati, la situazione che si è venuta a creare è paragonabile - per certi versi e alla luce della Teoria del restauro di Brandi - a quella di un rudero che riacquista funzionalità formale (e va pertanto restaurato) se riferito ad un contesto figurativo dalla struttura formale ancora funzionante[33].
Diversa invece la situazione della vela stellata, e non tanto perchè non è ‘figurata’, ma perchè essa è stata quasi completamente ridipinta nell’Ottocento. La decisione è stata pertanto quella di non procedere per analogia con le altre unità figurative coinvolte nel crollo (i Santi dell’arcone, la vela di San Girolamo, quella di San Matteo, i due costoloni trasversali) identificando e riassemblando i relativi frammenti - operazione indubbiamente dispendiosa e dai risultati incerti come tutte le volte che si ha a che fare con superfici pittoriche monocrome - ma di tentare di attenuare il vuoto costituito dalla assenza di decorazione mediante l’abbassamento ottico-tonale dell’intonaco.
La contiguità di un’altra situazione di ‘vuoto’, costituita dalla vela di San Matteo, ha comportato, d’altra parte, il ricorso ad una accentuazione del valore tonale dell’intonaco proprio ad evitare che l’intonaco, ‘abbassato’ soltanto otticamente, ‘risucchiasse’ piuttosto che sostenere la vela di Cimabue.
6. Risultati e ricadute
A parte i risultati pratici, di cui si dà ampio resoconto nel volume, ritengo doveroso quanto meno accennare a quell’insieme di attività, non facenti parte dell’attività pratica di conservazione e restauro, nè delle ricerche e indagini ad essa strettamente finalizzate, ma che hanno comunque svolto un ruolo fondamentale sia in direzione di una migliore conoscenza dei dipinti murali della Basilica Superiore (non solo sotto l’aspetto dei materiali e della tecnica esecutiva ma anche dei fenomeni di degrado e di alterazione), sia nel rapporto programmatico e costante con i diversi pubblici di fruitori.
Per quanto riguarda il primo aspetto, mi limiterò a ricordare le due acquisizioni più importanti: l’impiego dell’olio come legante da parte del cosiddetto Maestro Oltremontano, che restituisce anche sotto questo aspetto alla decorazione pittorica della Basilica la priorità cronologica[34] e la scoperta del meccanismo di alterazione dei pigmenti a base di piombo (biacca, minio) o di mercurio (cinabro), che rende finalmente ragione del perchè i medesimi pigmenti si alterino nei dipinti di Cimabue (e, in parte, in quelli di Giotto) ma non in quelli del Maestro Oltremontano, proprio a causa del diverso legante impiegato da quest’ultimo, ma soprattutto fanno giustizia della tradizionale vulgata pseudoscientifica in base alla quale sarebbe stato sufficiente ‘riconvertire’ la biacca alterata ritrasformandola nel pigmento bianco di partenza per riottenere l’aspetto originario dei dipinti.
Una pretesa, questa, che, pur essendo stata dimostrata da Brandi, fin dai primordi della attività dell’ICR in Basilica, insostenibile sia sotto l’aspetto dei principi e della metodologia del restauro che in base a constatazioni e sperimentazioni di tipo scientifico (condotte allora da Renato Mancia), viene purtuttavia di tanto in tanto rilanciata a ulteriore conferma del fatto che certe illusioni sono molto dure a morire[35], anche quando ne va di mezzo il principio fondamentale della conservazione e del restauro, e cioè l’assoluto rispetto dell’autenticità dell’opera con la conseguente necessità di astenersi da qualsiasi operazione che possa comunque portare detrimento al manufatto, tanto più se essa non è finalizzata ad una migliore conservazione dello stesso[36].
L’attività di comunicazione, informazione, confronto e didattica ha voluto programmaticamente servirsi di tutti gli strumenti disponibili, ma anche creandone di nuovi, allo scopo di fornire alla opinione pubblica mondiale il maggior numero di informazioni possibili e nel minor tempo possibile, preoccupandosi sempre però di adoperare un taglio diverso a seconda dei destinatari.
Così si è fatto ricorso alla forma del seminario specialistico chiuso al pubblico quando si è trattato di assumere decisioni su problemi delicati e complessi per i quali bisognava disporre di conoscenze ed esperienze professionali specifiche che non sarebbe stato possibile riversare di punto in bianco per l’occasione su un pubblico generico anche se di buona cultura generale, al quale invece erano diretti gli incontri tra esperti nel corso dei quali veniva discusso e valutato quanto fino allora fatto (o, in casi eccezionali, come per esempio rispetto alle sperimentazioni di riassemblaggio informatico dei frammenti, per le quali non esistevano precedenti, semplicemente progettato) partendo dal resoconto dei responsabili del cantiere, solitamente accompagnato da visite guidate alle zone oggetto di illustrazione o a mostre appositamente progettate, mentre un discorso ancora diverso è stato fatto nei confronti del pubblico in età scolare, che non solo ha potuto visitare i lavori in corso (soprattutto, per ovvi motivi di sicurezza, nel cantiere dei frammenti) ma per il quale, almeno per i più piccoli, è stato creato un apposito gioco educativo in forma di soft (I bambini salvano Cimabue)[37].
Ma i risultati più interessanti credo debbano essere individuati in alcuni prodotti, privi di precedenti e, generalmente (quanto meno fuori dall’ICR), senza seguito. Intendo riferirmi a:
$1- la serie di “Quaderni”, complessivamente 15, che fin dal gennaio 1998 hanno accompagnato le fasi principali dell’avanzamento dei lavori di restauro nel complesso basilicale e poi nel cantiere dei frammenti, con lo scopo dichiarato di fornire informazioni sull’attività del cantiere in tempo quasi reale (e anche quando fu avviato, in un secondo momento , un sito in cui erano resi consultabili gli stessi Quaderni)[38];
$1- la inchiesta specialistica sui visitatori del cantiere, affidata alla III Università di Roma, per capire se e quanto eravamo riusciti a comunicare di quello che avevamo fatto e intendevamo fare (con risultati sconcertanti, almeno per chi è abituato troppo disinvoltamente ad attribuire al ‘pubblico’, senza essersi mai preoccupato di consultarlo, le proprie convinzioni quando non i propri pregiudizi)[39];
$1- la Guida al recupero, ricomposizione e restauro di dipinti murali in frammenti. L’esperienza della Basilica di San Francesco in Assisi, con la quale si è voluto mettere a disposizione di tutti le esperienze fatte dal cantiere dei frammenti, per evitare che in contingenze analoghe - come finora è successo - si sia costretti a ripartire da zero;
$1- la ‘teca antisismica’, frutto della collaborazione istituzionale tra l’ICR, per delega del Ministero BCA - Commissario delegato, e l’Istituto nazionale del Patrimonio del Ministero della cultura del Giappone.
Un seguito invece l’ha avuto il corso accellerato teorico-pratico impartito ai Vigili del Fuoco che avrebbero dovuto recuperare le ‘macerie’ della vela di Cimabue per abituarli a maneggiare correttamente i frammenti di dipinti murali e degli altri manufatti artistici in cui si sarebbero imbattuti, sia a livello di Dipartimento della Protezione Civile che della Commissione sicurezza Beni culturali del Ministero BAC, e, più recentemente, per convenzione tra il Ministero Interni-Dipartimento VVF e il Ministero BAC- Commissione sicurezza[40].
Infine, le attività iniziate e finora non portate a buon fine per mancanza delle necessarie risorse, le più importanti delle quali sono:
$1- il restauro delle vetrate (come è noto il più importante complesso di vetrate medievali in Italia e uno dei più importanti al mondo);
$1- la pubblicazione delle attività di studio, prevenzione, conservazione e restauro effettuate dall’ICR prima del sisma, in particolare sulle decorazioni murali delle due Basiliche ma anche su svariati manufatti appartenenti al Tesoro, al Museo ed al Sacro Convento;
$1- la realizzazione del Museo dell’attività di restauro post-sismica.
Per quanto riguarda le vetrate, oltre agli strumenti conoscitivi pubblicati in questo stesso volume (in particolare le mappe documentarie dei materiali costitutivi, dello stato di conservazione e degli interventi di restauro pregresso di tutte le vetrate della Basilica Superiore) l’ICR ha acquisito in passato diversi elementi conoscitivi sulle vetrate della Basilica Inferiore e si appresta a effettuare un cantiere-pilota (o cantiere di progetto) sulla vetrata della Cappella della Maddalena.
Per una serie di motivazioni convergenti, che sarebbe fuori luogo anche solo elencare qui, di tutta la complessa e ininterrotta attività dell’ICR a favore della Basilica e del Sacro Convento anteriore al sisma nell’arco di più di mezzo secolo (1942-1997) non è stato pubblicato finora un resoconto complessivo, e tanto meno esaustivo, nonostante la quantità sterminata di informazioni incamerate: neppure di quello che, investendo la decorazione murale delle due Basiliche, costituisce senza dubbio - per durata (20 anni, dal 1963 al 1983), estensione (10.000 mq), complessità culturale, valenza didattica - il più importante cantiere di restauro di dipinti murali dell’epoca moderna.
Infine, realizzare il Museo si impone non solo per garantire al pubblico il diritto di fruizione dei frammenti, che non è stato possibile ricollocare, ma anche per consentirgli di ripercorrere l’eccezionale esperienza di ciò che è stato fatto in otto lunghi anni di lavoro per passare dal disastro alla possibilità di riappropriazione del monumento[41].
Diverso è invece il caso della bussola con funzione di ‘filtro microclimatico’ che avrebbe dovuto sostituire quella precedente in vetro ridotta in frantumi dal terremoto, sommando pertanto alla funzione primaria di carattere liturgico quella di schermo alla penetrazione di polvere e inquinanti dal prato antistante la facciata e di ‘regolatore’, parziale ma vitale per la migliore conservazione delle decorazioni murali, delle condizioni termoigrometriche[42].
La esiguità del tempo a disposizione in vista della riapertura della Basilica e, soprattutto, la scarsa disponibilità a farsi carico di problemi esulanti dalla loro diretta esperienza da parte dei progettisti architettonici, non hanno consentito la realizzazione del progetto di massima messo a punto da un inedito team architetto progettista di formazione ed esperienza conservativa presso l’ICR e fisico microclimatico con lunga frequentazione di problemi inerenti alla conservazione di decorazioni murali a rischio in quanto site in ambienti confinati inidonei. È doveroso però sottolineare che la necessità di una più funzionale prevenzione del degrado delle decorazioni murali della Basilica Superiore, ed in particolare del ciclo francescano di Giotto, rimane sempre viva - così come, analogamente, la necessità di controllare periodicamente in via strumentale la tenuta dei materiali sintetici impiegati per la messa in sicurezza della volta della Basilica e, in maniera complementare, le condizioni termoigrometriche del sottotetto.
[1] La costituivano Mario Serio (Direttore Generale per i Beni AAAeS), Costantino Centroni (Soprintendente BAAAS dell’Umbria), Renzo Mancini (Soprintendente BAAAS delle Marche), Anna Eugenia Feruglio (Soprintendente per i Beni archeologici dell’Umbria), Giuliano De Marinis (Soprintendente per i Beni archeologici delle Marche), Antonio Paolucci (Soprintendente BAS di Firenze), Michele Cordaro (Direttore Istituto Centrale Restauro), Alessandro Bianchi (ICR), Mario Lolli Ghetti (Soprintendente BAA di Firenze), Pio Baldi (Soprintendente BAA del Lazio).
[2] Costituita da Mario Serio, rappresentato sul posto dal Vice Commissario per l’Umbria Ing. Luciano Marchetti, Antonio Paolucci in qualità di coordinatore, Costantino Centroni, Giuseppe Basile, delegato dal Direttore Cordaro a rappresentare l’ICR a tutti gli effetti, Giorgio Croci, ingegnere strutturista, docente all’Università La Sapienza di Roma, Paolo Rocchi, architetto, della stessa Università (tutti e due in veste di liberi professionisti), P. Giulio Berrettoni, Custode del Sacro Convento di San Francesco, affiancato dal ‘portavoce’ P. Nicola Giandomenico.
[3] La coincidenza era stata voluta dal Sottosegretario alla Protezione Civile Franco Barberi (cui si deve anche l’iniziativa di una gestione apposita per i Beni Culturali) per garantire il massimo della funzionalità.
[4] Il documento è riportato in Fratello Terremoto. Il salvataggio, il restauro architettonico e il consolidamento della Basilica Patriarcale di San Francesco in Assisi, a cura di C. Centroni e P. Rocchi, Roma, 2005, p. 256
[5] Dalla supervisione dell’intervento di restauro sul ciclo giottesco condotto da Mauro Pelliccioli, agli inizi degli Anni ’40, all’attività annuale di controllo dello stato di conservazione e prevenzione del degrado dell’intera decorazione murale delle 2 Basiliche , interrotta soltanto dal sisma del 1997, passando attraverso il primo, vero restauro di tutti i cicli di pittura murale per incarico dei Ministri dei Beni culturali pro tempore - per non parlare degli interventi sugli innumerevoli manufatti artistici mobili (vetrate dal museo, dipinti, sinopie staccate, reliquiari, il Paliotto di Sisto IV ), sugli oggetti legati al Santo (le 2 tuniche e il cappuccio, la bolla di Frate Leone, la Regola, etc.), nonché sul grande ciclo ad affresco di Giorgetti e Sermei strappato in seguito all’incendio che distrusse la Sacrestia e restaurato, ma che purtroppo, a distanza di quasi 20 anni dalla riconsegna, non si è ancora potuto esporre perché non c’è alcun locale abbastanza capiente nel Convento.
[6] Oltre che la ininterrotta attenzione e cura per i dipinti murali e conseguentemente per l’idoneità dell’ambiente delle due Basiliche (cfr. G. Basile, Per la prevenzione. Controllo e manutenzione di decorazioni pittoriche in S. Francesco ad Assisi, Roma, Istituto Centrale per il Restauro, 1989), intendo riferirmi in particolare al Piano pilota per la conservazione programmata dei Beni culturali in Umbria , Roma, Istituto Centrale per il restauro, 1975.
[7] L’ICR era intervenuto per cinque anni di seguito in Friuli, inizialmente per contribuire al recupero e al salvataggio delle opere d’arte danneggiate dal sisma, poi per portare a compimento il restauro di alcuni tra i più importanti cicli di pittura murale sottratti al terremoto: la parrocchiale di Ospedaletto di Gemona, la Chiesa dei Santi Giacomo e Anna a Venzone, la parrocchiale di Villuzza di Ragogna, la chiesa di San Francesco a Cividale, la chiesa di Gaio di Spilimbergo in quel di Pordenone, etc.
In Campania le cose erano andate diversamente, dal momento che, superato il periodo dell’emergenza, i responsabili locali avevano optato per la piena responsabilità nella progettazione e realizzazione dei lavori, pur continuando a fruire della consulenza dell’Istituto ogniqualvolta ritenevano di averne bisogno. La Soprintendenza BAS di Napoli inoltre ebbe ad affidare all’ICR una serie di dipinti su tavola quattro-cinquecenteschi del Museo di Capodimonte, da restaurare nei laboratori dell’Istituto.
[8] Nel senso che il non portare a buon fine una qualsiasi iniziativa didattica avrebbe conseguenze assai più gravi che non lo slittamento di un determinato intervento di conservazione e restauro, una ricerca scientifica e quant’altro, in quanto priverebbe gli allievi di una parte ben precisa e insostituibile della loro esperienza formativa; mentre, analogamente, non accade comunemente che un libero professionista vada incontro agli stessi inconvenienti di un ufficio pubblico, qual è l’ICR, se sposta qualche scadenza per adeguarsi a mutate esigenze - se non altro per il fatto che, quanto meno nel campo della conservazione e del restauro, è praticamente impossibile trovare una struttura operativa privata che disponga della stessa rete di interrelazioni interne ed esterne con gli obblighi conseguenti (basterebbe ricordare soltanto che l’ICR deve, per legge, garantire consulenza su qualsiasi problema di conservazione e restauro a qualunque ente pubblico lo richieda).
[9] Si trattava di Lidia Rissotto, restauratore capo ICR subentrata, grazie alla sua generosa disponibilità (ed esperienza, anche particolarmente della Basilica), a Eugenio Mancinelli, da poco pensionato dopo essere stato per parecchi anni responsabile dei cantieri di controllo e manutenzione effettuati ogni anno sulle decorazioni murali della Basilica.
Gli altri erano: Francesca Cristoferi e Paola Passalacqua, rispettivamente funzionaria storica d’arte e restauratrice presso la Soprintendenza, Maria Andaloro e Paola Pogliani per l’Università della Tuscia.
[10] In particolare il Centro per lo studio delle cause di deperimento e dei metodi di conservazione delle opere d’arte di Roma del CNR (Sandro Massa), l’Unità salvaguardia Patrimonio artistico dell’ ENEA (Sergio Omarini), l’INFOCOM del Dipartimento di Ingegneria dell’Università La Sapienza (Gianni Iacovitti) , l’ISSIA del CNR di Bari (Arcangelo Distante, Giovanni Attolico). Quanto ai privati, si andava dai Friends of Saint Francis alla Croce Rossa e alle Misericordie (soprattutto quella toscana) - ma su questo aspetto cfr. il già citato FratelloTerremoto, passim.
[11] Oltre alle professionalità già citate (storici dell’arte, restauratori, fisici, informatici, diagnostici, fotografi) bisogna almeno citare i chimici, gli architetti, i disegnatori, i geometri.
[12] Le donazioni più generose furono quelle provenienti da pubbliche collette, sia in Italia ( “Corriere della Sera” ) che all’estero (Giappone).
[13] L’osservazione riguarda , ovviamente, il lavoro sui frammenti (quello sulle decorazioni in situ si è svolto a Basilica chiusa : né poteva essere diversamente e, comunque, non sarebbe stato facile farlo più rapidamente e, nello stesso tempo, correttamente…), rispetto al quale bisogna tuttavia ribadire che si tratta di un’attività assolutamente non comparabile alle operazioni correnti di conservazione e restauro – sempre che lo si voglia fare in maniera corretta – e che, anche volendo, non si sarebbe potuto aumentare il numero degli operatori per carenza di offerta da parte del mercato
[14] Non diversamente deve potersi interpretare l’osservazione, tra meravigliata e stizzita, di uno degli architetti corresponsabili dell’attività di restauro di fronte alla mia indignata accusa di scarsa attenzione per le infiltrazioni delle acque di cantiere sulle decorazioni murali di artisti quali Giotto, Torriti, il cosiddetto “Maestro d’Isacco”, etc.: “Ma che sarà mai 30-40 mq di intonaco, di fronte a tante migliaia che ne restano?”.
[15] Come Palazzo Te a Mantova, l’Abbazia altomedievale di San Vincenzo al Volturno in Molise, la Cappella Scrovegni a Padova, l’Ultima Cena di Leonardo a Milano.
[16] La proposta era quella che avrebbe avanzato qualunque ‘profano’ (e tali erano in quel caso i responsabili degli interventi sulla muratura), cioè riscaldare il più celermente e fortemente possibile la parete per farla prosciugare al più presto, non capendo che un tale trattamento avrebbe portato alla perdita della pellicola pittorica bagnata, tanto più che anche il sottostante intonaco in quella zona era particolarmente sensibile all’umidità.
Il rischio insito nell’altra proposta (affidare la soluzione del problema ad una illustre struttura scientifica, priva però di quel tipo di esperienza e senza alcuna conoscenza delle condizioni dei materiali dell’opera di cui avrebbe dovuto occuparsi) sarebbe stato invece uguale e contrario, se non altro in quanto mai avrebbe potuto agire con la necessaria tempestività.
[17] Basterà ricordare che a mostrare da dove si potesse accedere al sottotetto (cioè attraverso lo sportellone a vetri del grande oculo in facciata, sopra il rosone) sono stati i due restauratori ICR che avevano lungamente lavorato in Basilica, Eugenio Mancinelli e Renato Pennino, in quel momento presenti ad Assisi come volontari e che avevo pregato di fare da guida ai collaboratori degli strutturisti della Commissione, ai quali avevo suggerito questa soluzione come alternativa alla impossibilità di accedere in Basilica Superiore.
[18] Per esempio dei tre specialisti cui prima alludevo, una , la restauratrice Carla D’Angelo, aveva lavorato in Basilica sia da allieva ICR che da professionista; l’altro, il chimico Ulderico Santamaria, si era occupato a più riprese della Basilica e, infine, il terzo era un fisico di quel Centro CNR prima citato che collaborava con l’ICR fin dalla istituzione (1969). Quanto ai restauratori, tra i requisiti richiesti nelle gare d’appalto figurava non solo l’avere avuto esperienza di restauro su opere di quei pittori o di quella epoca ma anche l’avere partecipato in prima persona a lavori di restauro sulle decorazioni della Basilica.
[19] Anche in questo caso si è trattato di un’esperienza anomala, dato che generalmente le ricerche scientifiche (intendo riferirmi alle vere ricerche , cioè a quelle che si propongono di dare risposta a problemi nuovi o comunque mai precedentemente risolti, non certo a attività tipo PnD e simili), anche quando sono rigorosamente mirate e circoscritte, richiedono tempi notevolmente lunghi, ciò che invece sarebbe stato incompatibile con le condizioni di prolungata emergenza in cui ci si trovava ad operare. Inutile sottolineare come anche la dinamica dei controlli risultasse abbastanza anomala, quando invece avrebbe dovuto essere intesa come assolutamente normale, anche se è innegabile che un di più di prudenza, trattandosi di interventi privi di precedenti e comunque di dimensioni assolutamente incomparabili con eventuali precedenti, doveva essere ricercata e garantita.
[20] Come è noto, la normativa allora vigente richiedeva solamente un “certificato di qualità” rilasciato da un ente pubblico specializzato (per lo più Dipartimenti universitari).
[21] Di fatto il cantiere non potè concludersi a causa di una delle tante riprese dell’attività sismica, che costrinse il Vice Commissario Marchetti a mettere fine d’autorità a quella esperienza: quando ormai però, per fortuna, il più era fatto e comunque essendosi preoccupata la restauratrice D’Angelo di continuare da sola il lavoro, con l’aiuto di Gisella Capponi. Questa poi ebbe a sottoporsi ad un massacrante lavoro di definizione preventiva quantitativamente stimata delle operazioni da mettere in atto per i progettati interventi di conservazione e restauro.
[22] Si tratta di una tecnica inventata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale proprio per rispondere in modo adeguato al problema di come reintegrare un dipinto in frammenti, nel caso in questione la decorazione murale della Cappella Mazzatosta e della Cappella Ovetari. Si tratta di una serie di tratti sottili, paralleli, verticali, variamente colorati che ricostituiscono il tessuto pittorico mancante ma sono facilmente distinguibili, da vicino, come intervento di restauro a causa del carattere astratto del segno e della tecnica impiegata (ad acquerello).
[23] Varrà la pena ricordare, per la cronaca (che allora però se ne interessò a lungo), che le opzioni in astratto possibili (come avevo avuto modo di trattare più volte ed anche nei Quaderni n. 4 del settembre 1998 e n.6 del maggio 1999 ) andavano da quella assolutamente naive della copia sotto forma di gigantografia fotografica, alla copia “com’era dov’era” eseguita con tecnica analoga a quella originaria, alla creazione ex novo delle figure mancanti da parte di un pittore vivente.
A queste opzioni tradizionali ne avevo aggiunto una nuova, la ricostituzione virtuale del tessuto figurativo mancante mediante proiezione della relativa immagine fotografica, previamente “deformata” per farla aderire perfettamente alla conformazione doppiamente curva della vela di S. Matteo, da tenere di riserva nel caso in cui non se ne potesse ricostituire la decorazione impiegando i frammenti originali. E anche se, alla fine, non fu possibile mettere in opera il progetto per la irremovibile opposizione dei padroni di casa, fino al momento della riapertura della Basilica servì egregiamente – grazie al successo mass-mediatico ottenuto – a respingere l’ipotesi di ricostituire comunque le immagini crollate con la motivazione apparentemente irrefutabile che, una volta rimosso il ponteggio generale, il montaggio di un ponteggio in corrispondenza delle due lacune da risarcire avrebbe richiesto un ingiustificabile aggravio di spesa.
[24] Il Capitolo fu appositamente riunito, in via straordinaria, dal Custode che si attendeva - come poi avvenne - una condivisione di quelle che a lui apparivano buone ragioni: con una prassi di coinvolgimento costante che anche in altri casi (e non soltanto in periodo postsismico) aveva dato risultati positivi.
[25] Rivelando una sensibilità che invece molti ‘addetti ai lavori’ non mostravano, dal momento che tendevano a ridurre tutto ad un problema di ‘effetto’ (tipo: se non ci saranno le immagini comunque ricostituite delle figure crollate l’effetto mediatico di ‘operazione miracolosa’ ne sarà compromesso) o poco più.
[26] Va da sé che l’aspetto che incide di più sulla possibilità di ricostituire un’immagine in frammenti non è la quantità ma la significatività: il volto anche non completo di una figura umana ‘vale’ incomparabilmente di più di un vasto fondo azzurro o dorato ma anche più di un paesaggio, un’architettura, un panneggio e quant’altro.
[27] Come è accaduto, per citare due esempi di esperienza diretta, con i frammenti di scavo del vestibolo del refettorio dell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno, raffiguranti alcuni Profeti, e con i frammenti rinvenuti casualmente in un sarcofago romano nel corso di scavi archeologici sotto la sacrestia di Santa Susanna a Roma (ne sono venuti fuori una Madonna con Bambino e due Sante, esemplificata sulla Madonna della Clemenza di Santa Maria in Trastevere, e un frontone con l’Agnello tra i due Giovanni, il Battista e l’Evangelista). Sia gli uni che gli altri sono stati ricomposti, messi su supporto, restaurati ed esposti rispettivamente nel Museo di Venafro (in attesa di essere trasferiti nel museo abbaziale) e nella sacrestia della chiesa romana. In casi del genere, ovviamente, non è possibile fare di più perchè manca il supporto murario originario. Un caso emblematico di come invece sia necessario fermarsi perchè in caso contrario si sconfinerebbe nel falso è rappresentato dalla Cappella Ovetari: furono ricostituiti, a livello sperimentale, due soli pannelli e furono appesi al muro della Cappella come in un museo.
[28] Cfr. Mostra dei frammenti ricostruiti di Lorenzo da Viterbo, Catalogo a cura di C. Brandi, Roma, Istituto Centrale per il Restauro, maggio 1946 e C. Brandi, Mantegna ricostituito, in “L’Immagine”, 3, luglio-agosto 1947, pp. 179-80.
[29] In questo caso gli elementi di riferimento erano costituiti dall’architettura, che dà fondamento spaziale alla scena, dal fondo in origine dorato e ora, caduta la doratura, del colore giallo scuro della ‘preparazione’, che ‘chiude’ la scena, e dalle fasce policrome perimetrali che delimitano un modulo che si ripete in tutte e quattro le vele con i Dottori della Chiesa.
[30] Infatti, anche a volere considerare solamente l’aspetto quantitativo, la situazione era apparsa da subito pochissimo felice perché la dimensione dei frammenti era talmente piccola che, nonostante il numero elevatissimo riscontrato nel corso dell’acquisizione mediante macchina digitale, l’estensione totale rimaneva molto al disotto di quella della vela di San Girolamo. Se si aggiunge che la maggior parte dei frammenti acquisiti era relativa alle fasce decorative e che, comunque, il degrado subìto precedentemente al sisma ne aveva fatto poco più che dei monocromi, allora si capisce da sé che non potevano esserci previsioni rosee, a meno che - appunto - non fossero uscite indenni dal disastro le zone figurative più significative. È stato del resto questo il motivo per cui ho pensato che sarebbe stato utile fare ricorso all’informatica, pur sapendo benissimo che precedenti esperimenti in tale direzione non avevano dato l’esito sperato, pur essendovisi impegnati studiosi del calibro di Carlo Bertelli e industrie informatiche quali l’IBM (mi riferisco, ovviamente, alla Torre di Torba, ma anche al tentativo che Bertelli mi chiese di fare con i frammenti, anch’essi altomedievali, provenienti dall’Abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno alla fine degli Anni ’80 del secolo scorso): ma ritenevo che la sperimentazione dovesse misurarsi con la situazione più difficile (e credo ora di potere dire che difficilmente se ne sarebbe potuta trovare una peggiore) in modo che poi avrebbe potuto funzionare facilmente in ogni altra situazione (addirittura, speravamo, in presenza di materiali di scavo, quindi senza alcun preesistente documento visivo di riferimento).
[31] È appena il caso di ricordare che l’impatto fu così violento da mandare in frantumi l’altare rifatto quasi integralmente in stile cosmatesco agli inizi degli Anni ’60, e sfondare per un buon metro quadro il pavimento in marmo allettato su un solaio in cemento armato (anch’esso del principio degli Anni ’60), mettendo addirittura a rischio di distacco e crollo l’intonaco dipinto della sottostante vela della Povertà.
[32] La messa a punto di nuovi metodi in ogni campo relativo alla conservazione ed al restauro costituisce, come è noto, uno dei compiti principali dell’ICR fin dalla sua fondazione. Non a caso sono stati coinvolti nella collaborazione prima l’INFOCOM e poi (alla luce di un accordo generale di collaborazione tra Ministero BAC e CNR ) l’ISSIA - CNR di Bari: successivamente e non contemporaneamente solo per la riluttanza degli interessati, mentre si è dovuto rinunciare all’apporto del Dipartimento di Fisica dell’Università di Padova, che si occupava dei frammenti della Cappella Ovetari che a suo tempo non si erano potuti ricollocare, per l’impenetrabile barriera di segreto eretta anche in occasione di seminari specialistici, che pertanto hanno mancato buona parte dello scopo, che gli avevo assegnato, di occasioni per il confronto tra metodi e tecniche diverse in modo da ottimizzare gli sforzi e i risultati in un mondo di sempre maggiore interesse per la informatica applicata a tutti i campi dell’attività umana.
Ciononostante, i primi sviluppi del progetto (INFOCOM) hanno consentito di istituire un sistema di corrispondenza automatica tra frammento reale e frammento virtuale e di pervenire (agendo sui frammenti di una copia a fresco a grandezza reale della testa del Santo) alla delimitazione di aree di maggiore probabilità per la ricollocazione dei frammenti.
Ulteriori sviluppi (ISSIA) hanno reso possibile (agendo stavolta sui frammenti di una copia dell’intera figura del Santo) l’esatta collocazione di quasi tutti i frammenti e, infine, il metodo di “riassemblaggio assistito da computer” (ancora ISSIA) ha consentito la collocazione di un mezzo migliaio di immagini digitali dei frammenti veri della Vela di Cimabue.
Successive evoluzioni positive della ricerca hanno permesso di migliorare i risultati aumentando il numero dei frammenti riassemblati, ma purtroppo quando ormai l’identificazione e il riassemblaggio dei frammenti reali da parte dei restauratori secondo i metodi tradizionali era stato portato a termine: senza però nulla perdere quanto a livello dei risultati conseguiti, dato che – sintomaticamente – le due mappe dei frammenti riassemblati si somigliano quasi come due gocce d’acqua.
[33] Come si è accennato, al problema sono stati dedicati due seminari specialistici nei quali il primo quesito posto era se collocare o meno i frammenti riassemblati, visto che non sarebbe stata possibile una ricostituzione dell’unità potenziale dell’immagine precedente al crollo se non a costo di intervenire in maniera pesantemente mimetica e quindi pervenendo ad un risultato analogo a quello che si era voluto escludere da sempre, cioè, sostanzialmente, un falso.
La soluzione, condivisa da tutti, di ricollocare comunque i frammenti, trova la sua prima giustificazione nella preoccupazione di garantire ad essi non solo una adeguata conservazione ma anche una reale valorizzazione: diviene però priva di alternative dal momento in cui ci si è trovati di fronte alla irriducibile opposizione (per motivi assolutamente pratici, cioè di difficoltà nella gestione dell’apparecchio di proiezione) del Custode P. Vincenzo Coli alla proposta di ricostituzione interamente virtuale della vela, sviluppata in forma operativa dallo scrivente con il supporto scientifico di Massa partendo dall’originario progetto in scala. Scartata, per gli stessi motivi pratici, anche l’ipotesi secondaria di ‘aiutare’ mediante la proiezione l’immagine parzialmente ricomposta, quanto meno in determinati periodi del giorno, si era convenuto sulla opportunità di ricorrere a qualcuno degli espedienti ben noti alla storia del restauro (delimitazione di campi mediante tecniche di variazione del tono, della testura dell’intonaco, etc.) ma che non perciò fanno sconfinare nel falso. Anche questa indicazione sarà però disattesa al momento della messa in opera dai restauratori in omaggio al rigore metodologico estremo cui ci si era sempre ispirati e che, a loro parere, sarebbe stato messo in forse da questa ‘eccezione’.
[34] Cfr. Il cantiere pittorico della Basilica Superiore di San Francesco in Assisi, Atti a cura di G. Basile, Assisi 2001.
[35] La proposta di ‘riconvertire’ i dipinti alterati della Basilica Superiore (“invece di occuparsi del recupero, ricomposizione e restauro dei frammenti” ...) è stata avanzata poco tempo fa da Giorgio Bonsanti sul “Giornale dell’arte”.
[36] Naturalmente nulla vieta, anzi possono risultare di estremo interesse iniziative come quella di ricostituire l’aspetto originario di dipinti profondamente alterati e impoveriti anche se apparentemente quasi integri, quali le Storie Francescane nella Basilica Superiore (cfr. Giotto com’era. Il colore perduto delle “Storie francescane” nella Basilica di S. Francesco, Roma 2007, in corso di stampa) o come quella di interpretare creativamente la situazione venutasi a determinare a seguito dei danni del sisma sulle diverse morfologie della figura del Santo (Francesco fratello del mondo, una serie di opere di Silvana Leonardi esposte nella Sala Norsa del Sacro Convento nella primavera del 2001).
[37] Una convenzione fra la cooperativa culturale “Sistema Museo”, il Sacro Convento e il Commissario delegato ha fatto sì che questo aspetto dell’attività del cantiere assumesse una rilevanza e una continuità che difficilmente avrebbe potuto continuare a garantire il personale dell’Amministrazione dei BC addetto al restauro. Esiti poco soddisfacenti, invece, avrebbe conseguito la convenzione sotto l’aspetto economico, dimostrando quindi la non realizzabilità - in quelle condizioni - dell’idea dello scrivente di mettere in campo uno strumento che servisse a realizzare guadagni (seppur minimi) da devolvere all’attività di manutenzione della Basilica (per la quale, nel frattempo, il Sacro Convento aveva provveduto a costituire, sempre su suggerimento dello scrivente, una apposita Fondazione di partecipazione).
[38] Il taglio era ovviamente di tipo non specialistico e estremamente sintetico, ma non risulta che l’esempio sia stato seguito da nessuno (se non dallo scrivente in occasione del restauro degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, mentre un tentativo in tal senso, ma subito interrotto, era stato fatto precedentemente per il Duomo di Orvieto, con il titolo De Fabrica, da Raffaele D’Avanzo, Giusi Testa e Luciano Marchetti).
[39] Un esempio per tutti la risposta al quesito su che cosa fare se non fosse stato possibile ricostituire anche solo potenzialmente le immagini crollate, se mettere comunque qualcosa pur di riempire il vuoto figurativo ovvero lasciare l’intonaco in vista: la stragrande maggioranza ha condiviso questa seconda, ‘eversiva’, opzione.
[40] Invece, a quanto se ne sa, è rimasta finora senza seguito la proposta avanzata nel 1998 al Presidente della Commissione Eugenio Cannata dallo scrivente (anche in qualità di membro della stessa) di farsi promotore di un’iniziativa finalizzata a creare anche per i Beni Culturali un corpo specializzato di VVF.
[41] Per il momento l’esigenza fondamentale, quella conservativa, viene garantita dai locali adiacenti alla Basilica Superiore, sopra le Cappelle del fianco nord, adeguatamente ‘ristrutturate’ e attrezzate per accogliere i frammenti ed i materiali che andranno a costituire il futuro Museo, assieme alla documentazione grafica, fotografica, televisiva, digitale e alle ‘ricostruzioni’ informatiche e fisiche (un esempio di queste ultime è rappresentato dalle già citate ricostruzioni delle Storie Franmcescane nella Basilica Superiore).
[42] Precedentemente al sisma, nell’ambito della già citata attività di prevenzione messa in opera dall’ICR, era stato installato anche un impianto di monitoraggio delle condizioni termoigrometriche e anemometriche che aveva confermato il sospetto che la bussola allora esistente venisse gestita in maniera non appropriata, tanto che nel corso del controllo effettuato nel novembre 1993 sulle Storie Francescane di Giotto si fu costretti a rimuovere ben 80 chili di polvere (e inquinanti), mentre nei giorni estivi di maggiore afflusso dei fedeli e dei turisti o durante le cerimonie liturgiche di maggiore richiamo la situazione microclimatica toccava livelli di rischio piuttosto preoccupanti anche a danno delle persone (soprattutto nella Tomba del Santo). Dopo la distruzione operata dal sisma, che ha coinvolto anche l’impianto, non si è più ritenuto necessario - da parte dei responsabili della tutela della Basilica - ripristinare quei monitoraggi o quanto meno li si è rinviati finora sine die (Cfr. G. Basile, S. Massa, Controllo ambientale e fruizione: S. Francesco in Assisi, in Atti del 49° Congresso Nazionale ATI, Perugia 26-30 settembre 1994, vol. 4, pp. 93-98; G. Basile, S. Massa, Esperienze di prevenzione precedenti al sisma del 26.9.’97 e proposte per il futuro, in Il Cantiere pittorico, cit., pp. 435-446). Debbo aggiungere, per completezza di informazione, che contestualmente e allo stesso scopo si era dato inizio alla sperimentazione pratica di un riscaldamento invernale personalizzato installato al banco che, pur garantendo il necessario comfort ai fedeli o ai visitatori, non interferisse però con la situazione termoigrometrica ambientale della Basilica: sperimentazione anch’essa rimasta interrotta e mai più ripresa dopo il terremoto.